Regia di Bruno Dumont vedi scheda film
I ragazzi de La vie de Jésus sono a tutti gli effetti rintracciabili in questo mondo, a tutte le latitudini, dovunque la miseria morale di una società post-capitalistica abbia lasciato piaghe profonde e segnato abissi di dannazione
Una piccola riproduzione de La resurrezione di Lazzaro di Giotto è l’unico quadro sul muro della stanza di ospedale dove Clo Clo sta morendo di AIDS.
La banda dei quattro amici insieme a Michou, fratello di Clo Clo, è lì a far visita.
Qualcosa in quel dipinto attira lo sguardo di uno di loro, la mummia fasciata di Lazzaro ha sempre avuto un suo fascino:
Hai visto il quadro? - fa a Freddy- Quello è il tizio che è resuscitato…
Chiudi il becco – è la risposta.
Clo Clo è disteso immobile, la faccia devastata dai noduli del sarcoma di Kaposi, guarda Freddy con grandi occhi vitrei.
La macchina si ferma a lungo su ognuno, la faccia è al centro del campo visivo, come a scuoterla dal silenzio torpido, nessuno parla, l’emozione traspare ma non ha parole.
Fuori dall’ospedale la vita riprende con il rombo assordante dei cinque ciclomotori, risorge come Lazzaro lungo le traiettorie ortogonali delle vie di Bailleul, facciate di periferia, mattoni rossi, uguali, mute, allineate su selciati lucidi di pioggia, fino alle distese piatte dei campi delle Fiandre, sotto un cielo si bas qu'un canal s'est perdu…
"Volevo un personaggio altamente ambiguo," ha detto il regista "qualcuno che potesse conquistare lo spettatore e portarlo dove non voleva andare…Volevo mostrare come il razzismo di fondo della società può trasformare una banale storia d'amore in una tragedia".[1]
Una banale storia d’amore e un personaggio altamente ambiguo: Freddy (David Douche, perfetto nella sua faccia bolsa e fisico goffo) e Marie (Marjorie Cottreel, sottile, bionda e rosea, straniante nel suo asettico legame amoroso con Freddy) fanno sesso, continuo, freddo, meccanico; si baciano dovunque si trovino, ma emanano un calore pari a zero; gli amici fanno battute pesanti.
Ironia, invidia? Nulla, solo un parlare a vuoto per emettere suoni, peggio che guaire, abbaiare, miagolare, che almeno hanno un senso.
La loro è l’afasia che sputa fonemi come gusci vuoti.
La vita scorre uguale, inerte, corse rombanti fra strade vuote di città e strade sterrate di campagna, gare di prodezza insensata a sfidare le auto di turno, ore sonnacchiose al tavolo del bar a sbirciare il televisore sempre acceso, aspettando il sussidio di disoccupazione mentre la madre di Freddy asciuga bicchieri, brontola un po’, poi gli dà il piatto col pranzo.
Un fringuello in gabbia occupa le attenzioni di Freddy non più di quanto faccia Marie.
Palpeggiare in gruppo la majorette grassa della banda cittadina è una bravata come un’altra, strano che la famiglia ne faccia un caso e il padre strilli come un’oca!
L’estate umida e calda schioda il gruppo dai gradini di pietra in piazza e li porta in spiaggia, Gegè ha una vecchia decapottabile, arrivano a Dunquerque e poi tornano a Bailleul, il mare era grigio come il cielo d’estate.
L’arrivo di Kader (Kader Chaatouf), arabo, immigrato, attratto da Marie, scuote l’apatia e mette in moto i riflessi di difesa e i comportamenti collettivi del branco.
Il ragazzo appartiene ad un mondo diverso, incomprensibile perfino a Marie nel suo corteggiamento discreto, attento al rispetto delle tappe canoniche del gioco amoroso.
Marie è la femmina del branco, possesso indiscusso del capo, oggetto sessuale senza valore fino a quando il territorio non viene violato.
Fino al finale, violento, tragico, inaspettato. O forse atteso, tanto quanto sono facilmente prevedibili gli automatismi scontati della società di massa. Eppure la sequenza finale riesce ancora una volta a spiazzare lo spettatore.
“Io non devo trasformare i personaggi in eroi.” dice Dumont.
Neppure in anti-eroi, avrebbero un loro statuto e comunque acquisterebbero un significato precostituito che il suo cinema rinnega.
Gli eventi, scanditi da dissolvenze in nero, suonano come oscure occorrenze occasionali, non per questo meno carichi di orrore, macome svuotati di quel dosaggio ben miscelato di emozione/reazione indotto dall’artista-demiurgo, ristretti come sono in un minimalismo espressivo che si astiene da compiacimenti didascalici.
I personaggi de La vie de Jésus sono epifania sguarnita di esistenze allo stato puro, potremmo dire primitive, pre-verbali, pre-grammaticali, quasi che su esse e il loro habitat fossero passati invano millenni di storia.
La politica non mi interessa. Io mostro gli istinti più primitivi, è compito dello spettatore recepire e reagire. Io penso che il cinema sia in parte politico, ma la parte politica sono gli spettatori, perché il cinema va verso lo spettatore. Lo spettatore ha una portata sociale, politica, morale. Infatti ne La vie de Jésus ci sono dei personaggi in situazioni particolari dal punto di vista socio-politico, ma il racconto di questa condizione rimane marginale e le loro storie vengono sempre sviate.
Si pensa a Calvino, vedendo Dumont, e al suo rapporto col cinema:
“…dilatazione dei confini del reale, spalancarsi di dimensioni incommensurabili, astratte come entità geometriche, ma anche concrete, assolutamente piene di facce e situazioni e ambienti, che con il mondo dell’esperienza diretta stabilivano una loro rete (astratta) di rapporti” (Autobiografia di uno spettatore, p. 41)
Quello a cui assistiamo è il farsi di un’esperienza del mondo che è altra, “si maschera, sfugge, inganna, chiama a percorrere i suoi meandri fino all’estenuazione” potremmo dire, mutuando il Benjamin di Immagini di città.
I ragazzi de La vie de Jésus sono a tutti gli effetti rintracciabili in questo mondo, a tutte le latitudini, dovunque la miseria morale di una società post-capitalistica abbia lasciato piaghe profonde e segnato abissi di dannazione (come non tornare col pensiero a Tarr Béla, a Karrer, giorni a fissare dalla sua finestra i carrelli della teleferica pieni di carbone? ):
“Sono seduto davanti ad una finestra e guardo fuori inutilmente. Sono decenni che resto lì seduto. Qualcosa mi fa pensare che l’attimo dopo impazzirò. Però non impazzisco e non ho paura di impazzire. La paura di impazzire dovrebbe spingermi a sentirmi legato a qualcosa, invece non sono legato a niente. Ma tutto è legato a me e chiede che io guardi.Vuole che veda l’inconsolabilità delle cose. Devo vedere il cane lurido fradicio di pioggia sotto un cielo di piombo avvicinarsi meschino alla pozzanghera e bere. Vuole che guardi lo sforzo penoso con il quale tutti vorrebbero dire qualcosa prima di cadere nel baratro. Ma non ne hanno il tempo, stanno già precipitando. Vuole che senta che l’irreversibilità delle cose mi farà impazzire l’attimo dopo. Poi, invece, vuole che non impazzisca più.”
Come nel cinema del grande ungherese, lo spettatore è posto al centro dello spazio filmico e lo sguardo è il suo nel cogliere dietro le immagini, fra i loro interstizi, il senso di una “rappresentazione” del reale, che è altra cosa dal mostrarlo, raccontarlo, psicanalizzarlo o inquadrarlo in categorie sociologiche.
Ancora ci soccorre Calvino:
“L’illusione del mondo veniva tradizionalmente resa da poeti e drammaturghi come metafore teatrali; il nostro secolo sostituisce al mondo come teatro il mondo come cinematografo, vorticare di immagini su una tela bianca”.
La vita di Gesù, come probabilmente apparve ai suoi contemporanei, ipotesi di palingenesi globale dopo secoli di ideologia messianica diffusa dai predicatori del deserto e fatta propria dai dottori del Sinedrio, o semplice e stupefacente miracolo per masse proletarie.
Lazzaro risorge dal sepolcro, Freddy ha toccato il fondo, si adagia nell’erba, forse risorgerà.
Verità o immaginazione? Cinema.
[1] I brani con gli interventi di Dumont sono tratti da un’intervista a Close up.
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