Regia di David Lynch vedi scheda film
“Dick Laurent è morto” la frase apparentemente priva di significato ascoltata da uno sconvolto Fred, è il primo mattone di una costruzione a dir poco vertiginosa, il primo passo dentro un labirinto di situazioni che David Lynch costruisce quasi con il compiacimento di costringere lo spettatore a un intenso lavoro di collegamenti, ad una attenzione fuori dal comune necessaria per cogliere ogni rimando possibile che porti un po' di luce in una vicenda a dir poco sconcertante.
Lost Highway non è semplicemente un film, è piuttosto un esperimento visivo in cui il regista si diverte a destrutturare gli schemi tradizionali del racconto per utilizzarne poi le varie parti e raffigurare un incubo.
L'incubo di un uomo, Fred appunto, musicista che suona rabbiosamente il suo strumento, sfogando sul sax la violenza e il rancore che nasconde dentro, la frustrazione causata da una donna, l'affascinante Renee, moglie tremendamente sexy verso cui nutre forti (e fondati) sospetti di infedeltà.
Una storia di gelosia e di passione nel complesso assolutamente banale viene utilizzata con grande abilità da Lynch per raccontare le ossessioni che possono trovare alloggio nella mente umana.
E così più che la storia in sé, ricca peraltro di elementi onirici e surreali che spiazzano lo spettatore fino a rendergli incomprensibile lo svolgimento della vicenda, ciò che veramente conta sono i dettagli, le inquadrature. Ogni immagine diventa importante per cogliere elementi che aiutino l'interpretazione.
E così la casa del protagonista, in apparenza elegante costruzione alla moda, nella notte diventa luogo di inquietudine, con quei corridoi avvolti nelle tenebre che diventano l'antro ideale per ogni sorta di incubo. Una casa che tutto appare tranne che calda e accogliente, qui ogni muro trasuda ostilità se non, nella migliore delle ipotesi, indifferenza gelida per le sorti del protagonista.
Casa che, senza andare a tirare in ballo interpretazioni psicoanalitiche, è la rappresentazione sintetica delle complessità cerebrali del musicista.
E ancora, l'inquietante presenza del personaggio senza nome, che accompagna tutta la vicenda apparendo laddove meno te lo aspetti, incarnazione tangibile delle paure e delle angosce del protagonista, agghiacciante e indecifrabile come la sua faccia pallida.
Sperare di comprendere una pellicola come questa è francamente impresa che è forse meglio non intraprendere, proprio per quanto detto sopra. Si può discutere capillarmente su ogni inquadratura e sui significati che il regista cerca di fa pervenire allo spettatore.
Quello che veramente lascia meravigliati è la grande maestria che Lynch dimostra nel maneggiare una materia così delicata come quella di una narrazione disgregata su piani diversi spaziali e temporali, come se al mondo in cui vive il protagonista fosse affiancato da universi paralleli, narrazione proposta attraverso una commistione di generi (noir, thriller, horror, dramma psicologico) assolutamente riuscita.
Impossibile dunque dare una interpretazione inappuntabilmente logica a tutto quello che si vede, impossibile e forse anche inutile. Ciò che veramente è importante è comprendere che siamo di fronte a un metodo di utilizzo dello strumento filmico assolutamente originale, strada che il regista continuerà a percorrere arrivando, di lì a pochi anni, a creare l'ancora più spiazzante Mulholland Drive.
Chi si accosta alla visione di un film come questo deve liberarsi di quelle strutture concettuali che possono essere molto utili per giudicare un prodotto realizzato con criteri narrativi tradizionali, e tuttavia in questo caso sono assolutamente inutilizzabili.
In questo senso è richiesto a colui che partecipa alla visione un ulteriore sforzo di partecipazione, non è sufficiente fare lo spettatore per questo film, poiché ogni mia interpretazione che lo stesso prova ad avanzare in qualche misura ne diventa un elemento.
Può piacere oppure no, certamente siamo di fronte a una nuova prospettiva di fare cinema.
Straordinaria interpretazione di Patricia Arquette capace di creare l'immagine di una dark lady destinata a lasciare il segno. Bravi tutti gli altri.
Non si può chiudere un discorso su Lost Highway senza far risaltare la straordinaria importanza rivestita dalla colonna sonora. L'accompagnamento musicale è del fido Angelo Badalamenti intervallato da canzoni di straordinaria efficacia: la violenza industriale dei Rammstein si alterna alle note oniriche degli Smashing Pumpkins, Marilyn Manson contribuisce con un paio di pezzi (e compare in un allucinante video porno insieme al fido Twiggy Ramirez), produce il tutto Trent Reznor. Ma la canzone più bella è un pezzo di Tim Buckley, Song to the Siren, rifatta dai This Mortal Coil e cantata dalla strugente voce di Elizabeth Fraser, un pezzo di una dolcezza devastante a far da sfondo alle immagini di un amore senza speranza, un sentimento che, almeno in questo caso, non rende felici ma annichilisce l'anima di chi lo prova.
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