Regia di David Lynch vedi scheda film
“Dick Laurent è morto”…
L’inizio e la fine di un incubo morboso, sadico e labirintico (coincidenti, ma cronologicamente invertiti nel loro ordine da uno stratagemma temporale che solo un brutto sogno può giustificare o rendere plausibile) è collegato da una linea retta rappresentata da una buia autostrada illuminata solo parzialmente dai fari di un auto in fuga: quella dell’assassino di Dick Laurent appunto.
Una corsa nel deserto in un noir dominato dal doppio: un protagonista che si trasforma improvvisamente e senza un motivo percepibile in un’altra persona, e una sventola dalla chioma bicolore e dal passato ambiguo che appare prima mora come la moglie fedifraga di un suonatore di sax in balia delle proprie nevrosi, e poi nella platinata versione di donna di un boss violento e gelosissimo, pupa che seduce (non senza un calcolo preciso e machiavellico alla “Brivido caldo”) il giovane meccanico di fiducia del suo uomo, colui che guarda caso si è appena “reincarnato” nel suonatore di sax, imprigionato tra le sbarre con l’accusa di aver massacrato la propria moglie.
Un thriller che si dipana contorto ma seducente tra le pieghe di una società losangeliana corrotta, violenta e dedita al vizio in circoli privati e feste esclusive a luci rosse.
Chi tiene le fila di questo diabolica scacchiera è “l’Uomo Misterioso”, viscido nanetto maligno che ruba intimità oltremodo inaccessibili, fruga tra le lenzuola di raso nere cupe e fredde come la villa nuda ed asettica che ospita la coppia alla deriva: l’individuo presente contemporaneamente alla festa privata e nella casa della coppia scoppiata, il perverso che disegna e compromette i miserandi destini dei protagonisti, tutti inesorabilmente perduti da un percorso che è più tetro ed inesorabile di quanto il più perverso degli incubi riesca a far immaginare.
Strade perdute segna la fine dell’innocenza, di cui in qualche modo erano succubi i protagonisti dei precedenti e non meno inquietanti film di Lynch.
Tutti i personaggi coinvolti (e sono tanti davvero) sono vittime di una perversione di fondo, di una freddezza di sentimenti che si nutre di sfoghi di piacere e violenza che portano alla deriva di un piacere stordente, pure se effimero.
Patricia Arquette, qui nei due ruoli che valgono tutta una (comunque piuttosto variegata) carriera di interprete, è una dark lady alla Barbara Stanwich dalla vocina dolce e mielosa che contraddice la spietatezza di fondo di cui è capace, non appena l’uomo che ha manipolato con scaltrezza si ritrova omicida a sangue freddo del suo avversario.
“Non mi avrai mai” comunica questa con candore inquietante al suo spasimante, mentre nuda nel deserto dopo la fuga, si appresta a rientrare nella casa isolata e deserta del ricettatore.
Strade perdute è un film che si chiude nel momento e con la scena che immediatamente precede il suo avvio, dopo un labirinto asfissiante di incubi cupi e tortuosi, ma che nonostante questa sua struttura ellittica, riesce comunque (è questo uno degli aspetti straordinari, impossibili, contrari ad ogni regola geometrica e pratica, in grado di trasformarlo in un capolavoro assoluto) a risultare rettilineo, senza fine come l’autostrada che taglia in due il deserto senz’anima del nostro sporco universo terreno.
Il fido Angelo Badalamenti, Trent Reznor e Marilyn Manson, diabolico e satanico più che mai, affiancano Lynch nella scelta di una colonna sonora memorabile e fondamentale.
Un film da vedere e rivedere senza mai stancarsi, per trovare ogni volta nuovi accessi, nuove possibili interpretazioni e strade (perdute, appunto) di lettura e fascinazione visiva che non richiedono necessariamente certezze o risposte razionali.
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