Regia di Sam Mendes vedi scheda film
La 'grande guerra' ipercinetica di Sam Mendes, tra "Salvate il soldato Ryan" e "Revenant"
Sequenze memorabili e memorabili svarioni. Si può riassumere così il film che Mendes ha confezionato appositamente per la corsa agli Oscar. Ma la guerra non può essere ridotta a questo. È un film da vedere? Certo che sì, vista la grandezza della messa in scena e la perizia tecnica dell'operazione. È un film grande e dalle grandi ambizioni, un mirabile esercizio di stile. È un film che piace e piacerà (alla critica e al pubblico). Girato in un unico (finto) lungo piano sequenza, come già avevano fatto prima di lui Hitchcock con “Nodo alla gola” (dieci stacchi), Sokurov con “Arca russa” (ripreso davvero in un unico piano) e, più di recente, Iñarritu con “Birdman” (sedici stacchi). Mendes sa raccontare e coreografare una storia, e qui lo dimostra in maniera impeccabile, dirigendo un film di guerra che pesca a piene mani da “Salvate il soldato Ryan” (la missione suicida), “La sottile linea rossa” (le parentesi bucoliche), “War Horse” (i cavalli morti tra le trincee) “La battaglia di Hacksaw Ridge” (la corsa disarmata), “Revenant” (l’inossidabilità del protagonista) e ovviamente Kubrick. Per tre quarti il film rasenta la perfezione, con sequenze che s’imprimono indelebili nella mente e negli occhi: la carrellata iniziale all’interno della trincea, l’attraversamento della terra di nessuno, l’inseguimento notturno nella città in fiamme (grandioso e onirico, sembra quasi di essere sul set del “Signore degli Anelli”), il canto solitario del soldato all’accampamento (ed è subito “Orizzonti di gloria”). E allora cosa c’è che non va? La sostanza, la scrittura discutibile di alcune scene e il finale. Perché un pilota tedesco, appena scampato alla morte grazie all’intervento dei nostri, sente il bisogno di uccidere i suoi salvatori? (Sembra che la natura dei tedeschi sia intrinsecamente malvagia…) Come può un soldato, in solitaria, riuscire a muoversi da un fronte di battaglia all’altro senza essere mai tacciato di diserzione? Com’è possibile che la missiva con l’ordine decisivo arrivi indenne tra le mani del colonnello nonostante una rovinosa caduta nel fiume? Come si può riuscire a trovare subito e a colpo sicuro, tra migliaia di soldati, proprio quello che si stava cercando? Non sono dettagli insignificanti in un film che vuole essere una ricostruzione iperrealistica (per questo la scelta del piano sequenza e l’utilizzo di avveniristiche telecamere digitali) della realtà. Infine, la conclusione della vicenda risulta inadeguata (con una corsa che è un mix tra “Momenti di gloria” – non più “Orizzonti” stavolta – e una partita di rugby) e troppo consolatoria (con un troppo rassicurante Benedict Cumberbatch). Dov’è andato a finire l’avvertimento dato al protagonista da un ufficiale, il quale, a un certo punto del film, fa intuire che ai colonnelli, in fondo, piace fare la guerra a discapito dei poveracci che muoiono in trincea? Perduto, insieme a una più incisiva condanna della guerra che ci si sarebbe potuti aspettare dal regista di “Jarhead”. Il primo conflitto mondiale non ha unito fanti e generali per la liberazione di un popolo: è stata una guerra di classe, in cui i ricchi muovevano le pedine e i poveracci erano mandati al macello. È stata una guerra priva di eroi, fango senza gloria. Questo (ed è la sostanza) andava detto e non è stato detto. Mendes, coi suoi virtuosismi, gira un grande film, che riempie gli occhi e lascia col fiato sospeso, ma sulla ‘grande guerra’ conviene ripassare la lezione che ci hanno lasciato Lussu, Kubrick e Monicelli. Altro da dire non c’è.
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