Regia di Sam Mendes vedi scheda film
In uno delle scene finali di 1917 il personaggio interpretato da Benedict Cumberbacht afferma che in guerra vince solo chi sopravvive. Senza possederne la radicalità ma mantenendone lo spirito Sam Mendes fa tesoro della lezione di Andreij Tarkovskij che a proposito de L’infanzia di Ivan sottolineava come in guerra la sconfitta non distinguesse tra vincitori e vittime. In questo senso la lettura del regista inglese si dimostra coerente all’assunto svuotando la messinscena dei segni distintivi che di norma servono a rendere la contrapposizione degli schieramenti. Alla pari del Christopher Nolan di Dunkirk anche il Mendes di 1917 fa del nemico la proiezione delle paure dei combattenti impedendo agli occhi di George MacKay e Dean-Charles Chapman, così come a quelli degli spettatori la possibilità di riconoscere le tracce di quella diversità che in guerra legittima la soppressione dell’altro (condizione questa mai ricercata dai due “maratoneti” ma messa in pratica per “cause di forza maggiore”).
D’altro canto, rispondendo ai dettami tipici del cinema mainstream 1917 (come Dunkirk) ripropone sotto mentite spoglie - quelle del primo conflitto bellico - scenari e strategie peculiari della guerre contemporanee come lo sono la parcellizzazione e il decentramento del campo di battaglia oppure la mancata demarcazione degli opposti schieramenti (in virtù di contrapposizioni esistenti ma non ufficialmente dichiarate) per non dire della rappresentazione delle fonti di fuoco, nella ricerca ed eliminazione del target più simile all’impercettibile ma letale azione dei droni moderni piuttosto che alle vetuste e ingombranti artiglierie dell’epoca.
Avendo come obiettivo quello di raccontare la dimensione della guerra e non la sua cronaca Mendes sceglie un punto di vista immersivo che fa dell’insistito uso del piano sequenza il mezzo per far “entrare" lo spettatore dentro lo “spazio” della storia, stabilendo un livello di empatia che risulta tanto più alto quando lo è l’illusione di condividere il tempo dell’azione con i due militari. Sostituendo il movimento alla stasi (Dunkirk raccontava un’attesa, 1917 uno spostamento fisico) Mendes ha modo di articolare la storia - e perciò diversificarla - attraverso una serie di quadri a cui assegna un preciso valore retorico e una riconoscibilità che a seconda dei casi dipende da scelte estetiche che vanno dal segnalare il passaggio nel punto nevralgico delle linee tedesche rifacendosi alle ombre di una notte degna del miglior cinema espressionista, alla celebrazione del sacrificio delle Lost Generation - nella scena in cui il caporale Schofield viene a contatto con i commilitoni che sta cercando di salvare da morte sicura. - reso attraverso i volti imberbi di un battaglione di soldati bambino.
L’effetto complessivo è più spettacolare che straniante, più manierato che creativo, più popolare che ricercato, senza contare che alla stregua di altri lavori del regista inglese la levigata correttezza della confezione finisce per sottrarre anima al film. Da questo punto di vista 1917 ha i requisiti che servono per ben figurare nella notte degli Oscar.
Carlo Cerofolini
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