Regia di Mehdi Bersaoui vedi scheda film
Venezia 76 – Orizzonti.
Posti di fronte a un ostacolo imponente e da sorpassare a ogni costo, è inevitabile dover fare i conti con i propri limiti. Questa fase delicata, solitamente da affrontare il più rapidamente possibile, richiede di accantonare il resto, di non pensare ad altro, innanzitutto a quelle diatribe aperte che possono pregiudicare l’azione.
Tra le tante disavventure immaginabili, la vita in pericolo del proprio pargolo è la più lacerante («Un padre non può seppellire un figlio»). Un fils, mettendo sul piatto molte (troppe?) variabili, si chiede fino a che punto un individuo possa spingersi e quali compromessi accettare per sbrogliare una matassa tanto sensibile.
Tunisia, estate 2011. Una gita spensierata si trasforma in dramma per la famiglia composta da Fares (Sami Bouajila), Meriem (Najla Ben Abdallah) e l’undicenne Aziz, quando quest’ultimo viene gravemente ferito in un agguato operato da un gruppo di ribelli.
Una volta ricoverato, i medici constatano la necessità di un urgente trapianto di fegato. Tra un passato sconosciuto e scomodo, i vincoli imposti dalla legge e un’offerta d’aiuto da parte di chi smercia organi, Fares e Meriem dovranno capire quale strada intraprendere per salvare ciò che di più caro hanno al mondo.
Un fils segna l’esordio nel lungometraggio del trentacinquenne regista tunisino Mehdi M. Barsaoui. Come spesso capita in appuntamenti così sentiti, a primeggiare è la tendenza a strafare.
Nell’affrontare una fase drammatica della vita di una famiglia, con il clima di serenità spezzato ex abrupto, il regista apre il ventaglio delle opportunità, aggiungendone una sull’altra, con la priorità che rimane immutata e complicazioni chiamate a modificare lo stato delle cose.
Una contingenza del tipo tra l’incudine e il martello, che mette in discussione il ruolo dei genitori, il rapporto che li ha uniti per anni, con la burocrazia intorpidita e un sottobosco di alternative oltre il confine della legalità.
Allo stesso tempo, sullo sfondo esplodono le tensioni nella vicina Libia e, in modo indiretto, si tocca il tema dell’immigrazione, chiedendosi se effettivamente ogni vita valga quanto un’altra.
Un mazzo di orientamenti, con annessi i rovelli psicologici attinenti al travaglio dei genitori, che vede l’emergenza incalzare mediando le esigenze del racconto, ma le tante spinte non sono puntualmente regolamentate, rischiando di apparire in più occasioni pretestuose e/o spregiudicate.
Insomma, la prova più massacrante che un genitore possa affrontare produce un film dalle forti emozioni che impila dolore su sofferenza, con molteplici sfaccettature, una coesione in zona implosione, almeno un paio di scoperte sconvolgenti, un senso di frustrante impotenza e discorsi più volte interrotti e poi ripresi.
D’impatto, con un equilibrio precario.
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