Regia di Hlynur Palmason vedi scheda film
Un personaggio specchio della sua terra, chiuso tra ghiacci perenni e colate laviche ribollenti
Un film in scatola, con questo intendendo l’enorme capacità dell’autore, l’islandese Hlynur Pálmason, di comprimere nello spazio angusto di un film lo spessore di caratteri, moti dell’animo, crolli emotivi, vite spremute all’osso che spingono come un torrente lavico sotto la superficie ghiacciata.
Secondo lungometraggio di Pálmason dopo Winter Brothers, l’Islanda è co-protagonista con l’intensa performance di Ingvar Eggert Sigurðsson nei panni di Ingimundur, ex ufficiale di poliziasilenzioso e scabro, un uomo in cui dolore e amore convivono e tessono trame impreviste.
Come la sua terra, gelida e apparentemente immobile, “terra del ghiaccio e del fuoco", vulcani e lagune ghiacciate, lunghe notti e aurore boreali.
Un bianco, bianco giorno: Pálmason racconta di essersi ispirato al padre di Tarkovskij, il poeta Arsenij Aleksandrovi?, che aveva scritto un racconto intitolato "A Bright, Bright Day".
Il giorno bianco bianco è quando “la terra e il cielo diventano indistinguibili, e i morti possono parlare a noi che siamo ancora vivi".
Le due sequenze di apertura ne fanno un cult, in chiusura c’è un cedimento sentimentale che poco si concilia con il resto, ma la voce di Leonard Cohen con Memories ridà equilibrio.
Prima sequenza: un’auto corre sul nastro stradale alto sulla scogliera che costeggia il mare. La mdp la segue a lungo, immersa nella nebbia lattiginosa del paesaggio nordico, tanto a lungo da creare aspettativa e un po’ di angoscia.
Quindi lo stacco, improvvisamente l’auto sbanda, rompe il guardrail e va giù, scompare, cala il silenzio prima interrotto dal gracchiare delle ruote sull’asfalto ghiacciato. Non sappiamo chi c’era dentro, che sia morto è inevitabile, ma la solitudine di ghiaccio ha la forma di un sogno che non ha suono, eppure tutto parla.
Seconda sequenza: un piccolo angolo d’Islanda, montagne sul fondo, due costruzioni di tipo industriale appaiate, terra bruna e fangosa tutto intorno.
Il paese si mostra nella sua nudità in unaserie di tableaux montati su telecamera fissa puntata sui due edifici.
Due anni di registrazione per pochi minuti in cui si passa dalla notte al giorno, da una stagione all'altra, forse da un anno all’altro, solo con variazioni di luce.
Cavalli che ora pascolano ora spariscono, neve che copre tetti e terra e poi scompare, torna l’erba, la luce del sole si fa più calda.
Il passato da fotografo di Pálmason celebra i suoi fasti e le due sequenze creano sospensione, inquiete previsioni, attesa.
Si torna alla realtà, o meglio, alla quotidianità, parlare di realtà è improprio in un film così indefinito, dai confini labili come un paesaggio immerso nella nebbia bianca, dove tra vita e morte, amore e odio i confini si fanno porosi, incerti.
Ingimundur è un vedovo, capiamo da brevi cenni e lunghe ellissi narrative che chi è morto in quell’incidente era sua moglie
Il film è fatto di continui spostamenti in avanti, vite non raccontate che impongono uno sforzo di ricostruzione con la testa rivolta all’indietro, come i dannati del canto ventesimo dell’Inferno.
L’uomo appartiene alla terza età, ma si mantiene vigoroso e splendido come una roccia scavata dal tempo.
La moglie, giovane, bellissima, succulenta, apparirà nel nudo finale in una visione di sogno del marito, mai nominata, era la donna amata che non gli ha mai fatto desiderare altre donne.
Eppure lei lo ha tradito.
La scoperta è postuma, fra le cose che la polizia gli riconsegna dopo l’incidente ci sono dei bigliettini, qualche foto, quanto basta per sconvolgere una mente prima consumata solo dal dolore.
Ora quel dolore è contaminato dal sospetto e dalla ricerca dell’altro uomo.
L’argomento non è nuovo, lui, lei, un amante, la rabbia, la vendetta.
E’ il modoinsolito scelto da Pálmason per trattare temi così consueti a fare la differenza, lo stile adottato che mentre attinge alle banali storie del mondo le scaglia in latitudini inesplorate, dove un thriller finisce di essere tale e rifiuta qualsiasi etichetta.
Ingimundur, silenzioso e caparbio, ha lottato per elaborare la perdita, si è dimenticato di sè in pratiche quotidiane come la costruzione di una casa per sua figlia e l'amata nipote Salka (Ída Mekkín Hlynsdóttir), una di bambina di otto anni molto legata al nonno. Ma la sua, afferma il regista, è “una ferita aperta incapace di guarire o di evolvere.”
Dopo la prima sequenza bianca la seconda accresce stupore e attesa, ma slow motion è la cifra, Pálmason indugia sui particolari, porta in primo piano oggetti, visi che guardano in macchina, frequenti fermo immagine che creano senso e domanda.
Del thriller, psicologico e sentimentale, il film ha gli ingredienti, ma poi diventa astrazione, peso emotivo non detto, vortice di rabbia e desiderio di vendetta chiusi nella maschera impenetrabile dell’uomo.
La colonna sonora di Edmund Finnis segue come un lamento disperato l’evoluzione del protagonista, i suoi scatti, la ricerca del nemico, lo scontro.
Qua e là appaiono forme simboliche, come la lunga corsa di un masso giù per la scarpata e il tuffo nell’acqua, dove la caduta forsennata si ferma nella pace eterna del fondo.
Ingimundur è come quella pietra, la sua caduta libera si placa nella permanenza della perdita, nella sua accettazione, gli appartiene il ricordo, è nella sua mente, è reale.
E c’è l’amore, puro, incondizionato, verso la bambina.
Memories di Leonard Cohen chiude in stile anni '50
https://www.youtube.com/watch?v=YsF_7G43FsY
www.paoladigiuseppe.it
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