Regia di Lorcan Finnegan vedi scheda film
Presentato in anteprima mondiale alla Semaine de la Critique del Festival del Cinema di Cannes del 2019, Vivarium é il secondo lungometraggio del regista irlandese Lorcan Finnegan dopo l’horror Without Name del 2016 e una serie di cortometraggi (tra cui anche Foxes del 2011), scritto insieme al suo fedele sceneggiatore Garrett Shanley disseminando di simboli e metafore nemmeno troppo velate una pellicola nel quale risiede un messaggio che sublima la sua non particolare originalità con una costruzione di sicuro effetto e di particolare fascinazione.
A partire dal titolo in latino “vivarium”, con i quale si intende uno “spazio riservato alla coltura di giovani soggetti” (Treccani), é fin troppo evidente la sua metafora spietata e grottesca della società consumistica (produci, consuma, procrea, muori) che lentamente spegne qualsiasi ambizione e creatività nell’uomo per intrappolarlo, invece, in una squallida routine di casa, lavoro e famiglia, cercando di condizionarlo che sia esattamente questa la felicità, elaborando il film anche in territori fantastici fortemente allegorici, molto Ai Confini della Realtà, nel tentativo di realizzare una crudele quanto attuale favola nera che non si limiti però nel sottolineare il vuoto delle nostre aspirazioni materiali ma che soprattutto illumini sull’inutilità del significato delle nostre stesse vite.
Formatosi come graphic artist, lavorando poi nell’animazione e diventando quindi un prolifico regista pubblicitario, Finnegan affronta il racconto con un approccio soprattutto estetico e allegorico, ispirato dal regista francese Michel Gondry o dai lavori dello svedese Roy Anderson e sfruttando anche i colori e le forme, delle case come delle nuvole, dei quadri di René Magritte per realizzare questo sobborgo residenziale sul modello di Suburbicon e dal nome di Yonder, termine che si riferisce ad uno spazio indeterminato che si trova “laggiù” o “al di là” di qualcosa posto peraltro a una “giusta distanza”, che sembra appartenere più a un dipinto surrealista che non alla realtà.
Qui non c’é niente di reale, il cibo non ha sapore né odore, l’aria e la luce sono immobili e regna un silenzio assordante, innaturale, la terra é strana e non esistono altri esseri umani. E le nuvole hanno le forme, tutte uguali, delle nuvole.
Come in un quadro di Magritte ogni cosa é un’imitazione del vero in un loop temporale infinito.
Niente di più di una versione in scala reale del modellino esposto nell’agenzia immobiliare.
I due protagonisti (lei insegnante all’asilo e lui giardiniere ed entrambi, per così dire, allevatori) finiranno quindi per essere costretti a tirare su un “bambino” molto particolare che non farà altro che studiarli per riprodurne i gesti e i discorsi nel tentativo di imitare la loro attitudne umana, imparando da loro a sembrare vivo.
Ma come il sole è fasullo in questa specie di The Truman Show allucinato anche l’istinto materno e falsato e inculcato dall’esterno alimentando il sogno impossibile di una fuga da questa vita in cattività.
Decontestualizzato fino all’estremo, dalle geometrie simmetriche e dalle tonalità fredde di un’immagine dai stucchevoli colori pastello a definire l’ambiguo contesto di una storia che interpretiamo come artificiale nella sua realtà sintetica riprodotta su scala per rivelare quel “mistero” umano da molti definito impossibile da decifrare ma che chiaramente non è poi molto dissimile da questa sua mera riproduzione in vitro.
Ma se l’analisi del concetto di famiglia tradizionale e borghese é ormai un tema abusato al cinema Finnegan riesce comunque a sorprenderci grazie alla sua originalità, giocando abilmente tra un’umorismo nero e l’irragionevolezza di un’incubo domestico dall’origine necessariamente irrilevante, fino a un tono grottescamente paradossale e all’aspetto visivo, dalle inquadrature all’uso dei colori fino alla discesa finale della protagonista in un inferno dalle geometrie deformate e dai colori allucinati alla Gaspar Noé, tenendosi quasi sempre in bilico tra l’ironico e il paradossale pur non riuscendo comunque a realizzare una pellicola davvero riuscita, tra il ripetersi dello stesso meccanismo più e più volte e un messaggio metaforico troppo esplicito e privo quindi di qualsiasi ambiguità ma girando a vuoto (almeno nella parte centrale) e perdendosi un po' troppo quando poi é il momento di concludere.
Azzeccato il casting grazie soprattutto alla presenza di Jesse Eisenberg e Imogen Poots, in quanto entrambi attori versatili e compatibili nell’aspetto al classico ragazzo/a della porta accanto, fondamentale nel creare empatia con il pubblico e quindi preoccupazione per il loro destino a cui si affiancano i volti disturbanti e alternativi di Jonathan Aris, Eanna Hardwicke e Sennan Jennings.
Pur risultando piuttosto intuibile nelle sue conclusioni Vivarium permette comunque di mostrare le qualità di un regista giovane ma già con una sua propria identità, capace di piegare il genere secondo i propri bisogni dimostrando inoltre un grande talento visivo.
VOTO: 6
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