Regia di Marco Ferreri vedi scheda film
La recensione numero 500 non poteva che essere dedicata obbligatoriamente ad un capolavoro assoluto della storia del cinema come la Grande Abbuffata di Marco Ferreri (1973), il più grande successo commerciale del regista, complice anche il grande scandalo sollevato tramite la vetrina internazionale del Festival di Cannes, con tanto di indignazione della critica e la reazione schifata di Ingrid Bergman, la quale da presidentessa della giuria fu assolutamente incapace di farsi conquistare da tale satira nera, chiudendosi nella sua torre d'avorio piccolo borghese, negando qualsiasi riconoscimento all'opera.
Accostabile all'apocalittico Salò o le 120 Giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975) per l'impianto strutturale-metaforico, la pellicola di Ferreri se ne discosta in modo assoluto nei pressupposti ideologici, visto che il suo pessimismo è inter-classista, senza alcuna volontà di distinguere borghesi o proletari, che per il cineasta erano parte della stessa umanità. Quattro amici decidono di rinchiudersi in una villa a Parigi con l'intentodi suicidarsi tramite il cibo, per via di una vita inappagante e priva di senso; Ugo (Tognazzi), chef di un grande ristorante rinomato (simbolo della gastronomia), Michel (Piccoli), produttore televisivo (simbolo dei mass media), Philippe (Noiret), magistrato (simbolo della legge) ed infine Marcello (Mastroianni), pilota di linea (simbolo dell'amore libertino), quattro persone che rappresentano appieno i prodotti dell'ideologia borghese.
Ferreri porta alle estreme conseguenze la propria critica alla moderna società industrale e all'ideologia borghese che muove essa, tramite i duplici binari del cibo e del sesso, quest'ultimo incarnato dalle tre prostitute invitate dal latin lover Marcello a cui si aggiunge la maestra formosa Andreà (Ferreol), dando il via ad una mega orgia di corpi culinaria dai tratti morbosissimi. L'ossessione di Ferreri nei confronti del cibo, che da nutrimento energetico necessario al funzionamento dell'organismo umano, diviene oggetto di indagine del regista sul sovra-consumo sproporzionato dei beni da parte degli odierni consumatori diventati oramai dei veri e propri "divoratori" compulsivi di tali oggetti, innestandosi in un meccanismo perverso di uso-consumo in un circolo vizioso senza fine e senza senso, di una borghesia oramai svuotata del tutto e dedita solo al compulsivo consumo dei beni, giungendo a quello primario del cibo, che da energia necessaria per il necessario funzionamento del corpo umano, si trasforma molto presto da gusto a morboso disgusto senza fine.
Nichilista fino allo stremo, la Grande Abbuffata tramite il grottesco mette in scena un vuoto umano sconfortante, l'humor nero e il linguaggio satirico non ne fanno una dramma serioso a tutti i costi, ma certamente accentuano la sensazione di irrazionalità di un corpo borghese ridottasi a mero tubo digerente, che a poco a poco si suicida più o meno consapevolmente, rendendosi così inapaci poco a poco di svolgere qualsiasi altra funzione, collassando sempre più in una spirale inevitabile di autodistruzione, dove l'eccesso straripa del tutto, come nelll'esplosione del cesso della villa dove tra liquami e cacca che galleggia, una palude di merda che oramai ricopre l'intera umanità la quale ad essa farà presto ritorno.
Ferreri riempie il film volutamente di eccessi culinari che dopo un pò da piacere gustativo finiscono solo per il dare la nausea alla sola vista, orge a non finire, copulazioni in ogni luogo e scurrilità scatologiche, che riportano l'indagine del regista sempre alla materialità fisica del corpo umano, dove il personaggio di Michel si esibisce in rutti e peti a non finire, auto-degradndosi e annientadosi sempre più in un crepuscolo pessimista-apocalittico che si trascina dietro si sè uno dopo l'altro i quattro amici protagonisti, sempre più spogliati dalle sovrastrutture della moderna società di massa, per essere ricondotti ai bisogni primari dell'essere umano del mangiare, sesso e defecare, però reinterpretati alla luce di quella poetica del vuoto dervante dalla noia di vivere che già in Ferreri avevamo visto in Dillinger è Morto (1969), in cui il regista fu maestro nel mettere in scena l'alienazione dell'uomo moderno, qui scisso nelle quattro figure di Ugo, Marcello, Philippe e Michel, ridotti a meri involucri privi di una qualsiasi vitalità, atti a ripetere meccanicamente dei gesti che sono visti da osservatrici esterne come le prostitute come privi di una qualsiasi logicità; "perchè mangiare se non si ha fame", l'eterna domanda, d'altronde siamo affetti da tale bulimia consumistica senza freni? Viene in mente una brevissima storia del fumettista Robert Crumb dove rappresentava come animali (dei maiali per essere precisi) due consumatrici che uscendo dal centro commerciale alla fine commentavano di aver acquistato poco dichiarandosi così deluse; siamo ridotti a consumatori alienati da ingozzare senza ritegno, per le manovre di un qualcuno o di un qualcosa di non definito, dove i nostri corpi si stanno sempre più adattando meccanicamente a tale condizione sociale contro-natura, privandoci sempre più di qualsiasi vitalità, immergendoci così in un'eterna stanchezza maccanica.
Ritratto sociologico apocalittico di cupo nichilismo, la Grande Abbuffata causa la sua natura provocatoria ed anti-sistema, non poteva che scatenare indignazione e nel nostro paese essere soggetto a tagli e censure varie che sino alla recente riedizione da parte della CG Entertainment, aveva reso praticamente molto difficile un giudizio completo sulla versione integrale voluto dal regista.
Film aggiunto alla playlist dei capolavori : //www.filmtv.it/playlist/703149/capolavori-di-una-vita-al-cinema-tracce-per-una-cineteca-for/#rfr:user-96297
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