Regia di Gianni Amelio vedi scheda film
Un bambino lancia con la fionda un sasso che manda in frantumi il vetro di una finestra: è Bettino Craxi, che nella scena successiva è già il leader del suo partito, all’apice della carriera politica ma anche all’inizio del suo rapido e rovinoso declino.
Il suo personaggio, interpretato da un Pierfrancesco Favino incredibilmente somigliante al vero, fa così il suo ingresso in scena lasciando intendere che, come era lecito aspettarsi, i riflettori dovranno essere solo per lui; partono i titoli di testa, che chiudono il sipario sull’Italia e lo aprono su Hammamet, dove trascorreranno quegli ultimi mesi della vita di Craxi che il film racconta.
Le giornate dell’ex numero uno del PSI si trascinano dalla sdraio nel giardino della sua villa, più desolata che sontuosa, al divano al suo interno, dove vecchi film alla televisione si alternano a programmi di informazione che restituiscono il contesto storico e politico di quel periodo (la voce di Bruno Vespa, un intervento di Silvio Berlusconi). Con lui la moglie, che finalmente può essere tale a tempo pieno, la figlia devota ed il nipote che gioca tutto solo a fare “il generale”: Garibaldi, figura di culto per Craxi, ossessivamente ricorrente dal suo cappello rosso ai quadri alle pareti fino alla nota filastrocca, che il protagonista intona per intero. Il figlio sembra rimanere invece distante, sia geograficamente che affettivamente, e compare solo per festeggiare una Pasqua “quasi normale”, dove intona alla chitarra “E meno male che di briganti come me qui non ce n’è/A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io” mentre il padre si allontana malinconico.
Gianni Amelio sceglie di portare sullo schermo il privato di Bettino Craxi, seguendo un trend degli ultimi anni che ritorna (dopo Petri e Moretti) a raccontare le vicende - anche e soprattutto – umane dell’uomo di potere. Il rimando più vicino, anche cronologicamente, è però a Il divo di Paolo Sorrentino: stessa adesione dell’attore al proprio personaggio al limite della caricatura, stesso approccio narrativo con il film totalmente asservito al protagonista, che si ruba la scena. Ma se Servillo era bravissimo nella parte di Giulio Andreotti, Favino in quella di Bettino Craxi lo è troppo, finendo per tenere il film in ostaggio della sua interpretazione. Che regge bene finchè la scena è tutta sua ma vacilla non appena viene dato un po’ più spazio agli altri personaggi (la figlia) e crolla quando lo spazio –troppo –è condiviso con il personaggio di Fausto (interpretato da Luca Filippi).
La parte romanzata del film, che segue le vicende del figlio di Vincenzo Sartori (morto suicida ma forse no) arrivato ad Hammamet per tingere di giallo la storia, finisce per trascinarla in un terreno più adatto ad una fiction televisiva. Forse sarebbe stato proprio questo il giusto destino di un film (già oltre le due ore) che ben si prestava a diventare una serie: serve infatti un po’ di tempo per entrare in confidenza e “credere” a questo Craxi troppo uguale al vero, mentre gli altri personaggi, che nel film hanno davvero poco spessore, avrebbero potuto guadagnarne sulla lunga durata.
Hammamet non è un film schierato politicamente, ovviamente nei limiti del possibile: non c’è la volontà di riabilitare la figura di Bettino Craxi a tutti i costi e su tutti i fronti, quanto piuttosto quella di farlo sul piano umano, della sua vicenda personale. Funzionano bene le battute argute e ciniche (“Preferisco sempre l’intelligenza, che me ne faccio della lealtà di uno stupido” oppure “I soldi per la politica sono come le armi per la guerra”), quelle più ironiche (“Allora faremo il possibile perché Allah aspetti ancora un po’”) e anche quelle più amare (“Bisognerebbe sempre fare due figli, così se te ne muore uno ti resta l’altro”).
Funziona bene anche quando escono le debolezze di Craxi: di fronte alla malattia, ad un vecchio amore che riappare, alla fragilità della figlia, agli insulti dei turisti, ad una lettera insensibile, ad un piatto di spaghetti al pomodoro…
Funziona molto meno bene l’ultima parte, con il sogno, il colpo di scena, il bambino che torna a lanciare il sasso: quando il mattatore non c’è più i dialoghi si fanno odiosi, le immagini stucchevoli, la recitazione a tratti insopportabile.
Hammamet risulta alla fine un fim riuscito solo a metà: quella portante, che racconta l’esilio tunisino e la fine di un uomo cardine della politica italiana degli anni ’90. Un film che, in definitiva, avrebbe fatto meglio a restare dove gli indicava il suo titolo e che si regge su quel troppo nell’interpretazione di Pierfrancesco Favino, che tuttavia non è bastato.
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