Regia di Pietro Marcello vedi scheda film
Il film non è certamente un capolavoro, ma bisogna riconoscergli il grande merito di restituirci una lettura differente di una delle opere più note di Jack London (l’autobiografico Martin Eden) e di tratteggiarci quindi in maniera molto inconsueta la controversa figura dello scrittore americano.
Il romanzo di London, secondo me ha il principale merito di essere la coraggiosa autobiografia di uno scrittore troppo a lungo sottovalutato nai difficili esordi e poi forse eccessivamente sopravvalutato; è il frutto della depressione giovanile, pubblicato dopo il raggiungimento della fama; come fosse una rivincita delle frustrazioni patite ma, al tempo stesso, una concessione compiaciuta alla pruriginosa curiosità di una moltitudine di fans rassicurati nella loro mediocritas dalla narrazione delle sventure di uno sbandato qualunque che - sogno americano - veniva accolto nell’empireo della hall of fame.
[E io mi chiedo, e se lo chiede forse anche il regista, se le infelicità di London derivino in parte anche dal fatto che ha avuto più successo da romanzi scritti per mestiere - penso a Il richiamo della foresta - che da un libro scritto per urgenze psicologiche e diffuso per esigenze di mercato].
La storia americana, del resto, così come il mondo del cinema, quello economico, la politica, lo sport sono affollati di self made, di eroi spuntati dal nulla o addirittura sorti dal letame: l’idea, l’ideologia americana è intrisa dalla convinzione che il successo sociale e professionale possa derivare esclusivamente dalla forza di volontà degli esclusi, dalla iniziativa intraprendente e dallo spirito di sacrificio - l’esatto contrario della rassegnazione che intride certe correnti filosofiche europee, cariche di pessimismo, marcate da etologie rinunciatarie, dell’intima convinzione che, come colombe dal desio chiamate, siamo in balìa dell’ineluttabile (che - tornando in America, per fare una contrapposizione chiara - inzuppa invece il cinema dei miei amatissimi, e americanissimi, fratelli Coen).
Il regista alla sua prima prova narrativa (si sa che nella prima opera ogni autore riversa tutto se stesso) sposta coraggiosamente l’ambientazione dall’America dei primi anni del ‘900 alla Napoli di qualche decennio dopo, fra gli anni ’20, a giudicare dalle scene dei comizi socialisti e dei discorsi sugli scioperi, dalla presenza di nichilisti e anarchici; e gli anni ’40, come dicono le scene di macerie, l'apparizione di un manipolo di Camicie nere, l’inserimento di uno spezzone che mostra il rogo dei libri a Berlino; per poi finire negli anni ’60 e oltre, come testimoniano l’abbigliamento, le acconciature, la Olivetti e le automobili circolanti. Straordinari gli inserti filigranati di immagini d’epoca (di repertorio, si dice) che, a mo’ dei quadretti appesi alle pareti di una casa piccolo borghese o di un impolverato album di famiglia, fotografano il secolo facendo come da dissolvenza fra le varie scene: il londoniamo battello nel mare in tempesta, migranti sulle banchine e sui moli, fazzoletti che salutano, treni che passano, campagne che sfilano, balli, falò (la Bücherverbrennungen, rogo di libri, di Opernplatz a Berlino nel ’33.
La mancanza di coerenza nell’ambientazione deve essere data proprio dalla voglia dell’autore di fotografare un personaggio per rappresentare un secolo, l’esprit du siècle, e di legare con un fil rouge il disorientamento di un arrampicatore con un cinquantennio di storia.
La trama, sia quella del libro che quella del film, sono simili: Martin Eden, uno sbandato senza arte né parte, incontra casualmente Elena Orsini, una graziosa fanciulla della media borghesia e se ne innamora. La ragazza, confusamente attratta dal giovanotto scombinato, gli fa capire che il loro rapporto non può avere futuro, per la diversa estrazione sociale, per la zotica ignoranza e l’analfabetismo di Martin e per la intransigente contrarietà della sua spocchiosa famiglia.
Martin (un Luca Marinelli, sempre ardente e un po’ sopra le righe), forse più per orgoglio e albagia che per amore (e infatti si metterà con una cameriera più consona), si incaponisce e - considerato che i suoi tentativi di trovare lavoro falliscono tutti anche per una certa sua propensione al vagabondaggio - si mette a studiare e a leggere come un forsennato, facendo lavori saltuari e instabili che non gli permettono comunque di mantenersi. L’energia la ricava dalla sua debolezza; e la tenacia che mette nella lotta per l’autoaffermazione scaturisce paradossalmente dal bisogno di appartenenza. La sua avventura letteraria (chiave che apre la strada all’ascesa sociale e al cuore di una borghesuccia fragile e mediocre) inizia coi noiosissimi libri di Baudelaire e di Herbert Spencer (l’indigesto teorico, anticollettivista, del darwinismo sociale).
La storia si trascina stancamente fra intoppi amorosi, studi ostinati quanto disordinati, fallimenti lavorativi, fame e miserie, fiaschi nella società e nel mondo intellettuale, bocciature degli editori, incomprensioni, dissidi familiari, estraneità individualista nei confronti dei ribollimenti sociali (quasi a voler dire che il riscatto sociale è un fatto assolutamente individuale). Fino a che, casualmente, un editore lo pubblica e gli altri fiutano l’affare, lo cercano, lo promuovono, se lo coccolano come una gallina dalle uova d’oro, pronti - si sa - a risputarlo nella miseria da cui è sorto per sponsorizzare e spremere qualche altro parvenu.
Il disordinato arrivismo dello sbalestrato Martin (smarrito come il secolo che attraversa) lo mette a contatto con l’ipocrisia perbenista del milieu che lo ripudia e con l’annoiata società dei normali, infastidita dalla sua appartenenza proletaria quanto dalla propria inutilità.
Martin, come London, troverà la via del successo ma perderà la fame di successo, e cioè il suo slancio vitale. La vita a cui aspirava si rivelerà come il quadro macchiaiolo visto in casa di Elena che "da lontano è bello ma poi quando ti avvicini si vedono solo macchie”.
L’ansia di appartenenza approderà ad una solitudine più disperata e irrimediabile.
L’amore, la letteratura, la poesia non salvano la vita.
Solo la vedova tracagnotta che lo ha aiutato in un momento critico della sua avventura, solo lei - benché incolta, popolana, goffa (o proprio per quello) - dimostra di aver capito tutto quando gli sussurra timida “torna a fare le cose di prima”.
Ma Martin, come London, non ha più nulla da conquistare, è out, non sa come salvarsi, è ormai troppo incanalato, non ha spazi di manovra, si è perso: può solo, dal finis terrae a cui è giunto, puntare al largo, come Ulisse, per ritrovare se stesso guardando in faccia la sua disperazione (coincidenza tragica fra purificazione e morte).
Questa recensione, come tutte le mie, è un pretesto per dire altro.
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