Regia di Jay Roach vedi scheda film
Come la serie The Loudest Voice, Bombshell di Jay Roach racconta lo scandalo dello sfruttamento sessuale, con abusi fisici e psicologici, che ha coinvolto Roger Ailes, guru e capo di Fox News, braccio televisivo armato della destra conservatrice americana. La regia procede spedita per salti temporali dando forse troppo per scontato per il pubblico italiano, poco informato su quello scandalo benché avvezzo a quel tipo di narrazione e di impaginazione della cronaca delle reti private sin dagli Anni 90. Ma si prova comunque una certa fatica a seguire tutte le tappe della narrazione, pur lineare, che segue tre donne di tre diverse età e differentemente sfruttate da Ailes nel corso del tempo, riunite da un momento storico e dalla necessità di replicare alle offese e ripristinare i margini della dignità.
Al di là degli indubbi meriti civili e informativi del film, è in questa triplice incarnazione dell’oggetto del desiderio e dell’abuso che risiede il senso di una pellicola che pone in primo piano tre protagoniste di una unica rivalsa femminile, incarnate da attrici diverse e differentemente alterate nei tratti. Così è quasi nella quantità di aggiunta prostetica che si stabilisce una gerarchia dei personaggi, dal volto limpido di Margot Robbie (Kayla Pospisil), ultima arrivata e inconsapevole preda di un modus operandi ormai stabile e ripetuto, alle aggiunte cosmetiche sul viso di Nicole Kidman, a modifica di mento e naso per incarnare Megyn Kelly, presentatrice retrocessa poi estromessa per sopraggiunta età, sino alla completa trasformazione di Charlize Theron nel ruolo della giornalista politica Gretchen Carlson, invisa al nuovo candidato repubblicano (Trump) per domande troppo dirette e che deve combattere dall’interno per sopravviverenell’emittente.
Ed è proprio questo diverso grado di coinvolgimento che il trucco facciale sottolinea, tra la quasi innocenza della neofita, fino alla partecipazione attiva delle altre colleghe come sfruttate e sfruttatrici di un sistema noto ma taciuto, mentre l’interpretazione delle interpreti passa dal disorientamento (anche sessuale) della Robbie, alla freddezza algebrica della Kidman per arrivare alla sentita partecipazione, dilaniata tra orgoglio e rabbia compassata, della Theron.
Ma questo trionfo della falsificazione facciale non risparmia la controparte maschile perché dietro al camuffamento plastico che lo rende simile ad Ailes si cela il volto irriconoscibile di John Lithgow. Inoltre, la ricorrenza di dialoghi sull’apparenza e sull’aspetto fisico, fulcro della messinscena della cronaca da parte di Fox e della strategia di distrazione dell’attenzione dello spettatore, fa del film una metafora della mistificazione televisiva che, a sua volta, diventa emblema della rappresentazione di sé che fa l’America sul piccolo schermo.
Se Bombshell sembra porsi alla sinistra del terreno scrutato, con un punto di vista decisamente progressista e incline al #MeToo (imminente nel film, l’azione svolgendosi nel corso del 2016), le sue protagoniste sono tutti conservatrici e, in qualche modo, complici del sistema mediatico di cui si ritrovano a vario titolo vittime. Le tre donne di Bombshell forse non imparano a vedersi per quello che sono ma iniziano a concepire come siano state percepite, combattendo dentro e fuori l’emittente per un’immagine più veritiera, mentre il film scorre dalla solitudine individuale dello sfruttamento più bieco sino alla consapevolezza che una diversa solidarietà è possibile, che l’unione e la collaborazione possono fare la forza di un’azione collettiva che, invece, proprio l’ideologia di cui le protagoniste sono state portatrici e vestali ha sempre denigrato.
In questa satira sotterranea e straniante di un film progressista che ritrae il mondo dei conservatori più estremi, con l’intima contraddizione tra il moralismo di facciata e l’abuso di sostanza, e nella rappresentazione di personaggi per cui parteggiare con distacco, perché integrate al sistema che si armano per combattere, si manifesta l’atteggiamento caricaturale di Jay Roach, di cui forse è espressione anche l'alterazione somatica degli interpreti. Noto più per i film scopertamente comici (Austin Powers, Ti presento i miei) che per il filone più maturo e interessato alle storture della politica americana (Recount, Game Change, Trumbo), il regista ritrae l’agonia di un ambiente malato (e di un uomo anche fisicamente agli sgoccioli) che non si vuole vedere come tale e continua a rifarsi il trucco come la diva del Viale del tramonto. Dopotutto, sostituito Ailes, il futuro è fatto di fake news e tweet rabbiosi dietro ai quali nascondersi, di trucchi e di manipolazioni alla ricerca del prossimo nemico. Su quei volti rifatti e nei sorrisi finti come sulle superfici dello studio televisivo si riflettono luci troppo abbaglianti grazie a cui i dettagli realistici si perdono e nel cui calore la verità evapora.
La Theron, anche produttrice di Bombshell, sfruttacomunque spessoun trasformismo fisico, diventato ormai abituale da renderla quasi irriconoscibile da un film all’altro, e che imprime alla propria apparenza per evidenziare l’adesione anche fisica ai suoi personaggi. Partendo dall’algida perfezione di icona pubblicitaria, che gli spot Dior ribadiscono e amplificano, la Theron sembra divertirsi a scegliere ruoli che segnalino la dissonanza tra l’immaginario suggerito e la verità matericadel ruolo interpretato. In quello iato della percezione dello spettatore si nasconde la sua personalità di attrice la quale, con voluttà a volte malcelata, si diverte a rompere lo specchio della perfezione (è la regina cattiva di Biancaneve di recenti favole cinematografiche) per sporcare viso e gestualità in un’allegra goffaggine o in drammatico disagio. Ne è quasi manifesto Non succede ma se succede, coevo di Bombshell, in cui è l’elegante vicepresidente americano, in odore di candidatura a Potus, che si innamora di un nerd politicamente e fisicamente imbarazzante. Tra sconcezze verbali e rigidità politiche, ambizioni personali e bisogni fisici, il film declina, in un contesto quasi post-licealedall’umorismo grezzo e liberatorio, la rom-com di ambientazione politica (Il Presidente), con un risultato altalenante ma a volte esilarante nel contrasto tra fittizio bon-ton e scorrette scurrilità, prendendo di mira l’ossessione del politicamente accettabile e il populismo dell’adesione alle supposte esigenze dell’elettorato.
Su un tema analogo al film di Roach ma con un’emittente fittizia e ambientata nella redazione dell’inventata trasmissione eponima, The Morning Show (con cui Apple ha esordito nella produzione televisiva) parla anch’essa di sorellanza difficile, di antagonismo e di moralismo, di #MeToo e di politica, approfondendo soprattutto l’autocensura e il politicamente corretto del puritanesimo apparente in un ambiente complessivamente progressista. Sfruttando i volti rassicuranti di Jennifer Aniston e di Reese Witherspoon (con Steve Carrell), tra ambizione e rampantismo, la serie procede con l’eleganza di una dramedy che nasconde un thriller romantico e il riverbero di un paese alla ricerca di una strada pavimentata da una sincerità che sembra non volere trovare, mentreogni sceltaè sempre guidata da precisi calcoli di audience, di potere e di guadagno, anche meramente personali e, spesso, inconfessabili.
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