Regia di Delbert Mann vedi scheda film
La prima impressione che si può avere davanti a Tavole separate,e in generale per quasi tutte le opere di Delbert Mann,è la serena accondiscendenza con cui si ascolta una storia già sentita molte volte ma che non si ha voglia di interrompere,più per non turbare il piacere con cui viene narrata che non per quello che ne traiamo noi.
Questa opera sulla fragilità dei consolidati artifici espressivi con cui siamo abituati,e costretti,a comunicare,sulla monotonia dell’osservanza ad un codice morale che non si saprà mai veramente da chi è stato fondato,rientra perfettamente nell’asciutta e convenzionale propensione di Mann a trascrivere pedissequamente sullo schermo testi teatrali di alcuni numi tutelari della drammaturgia come in questo caso Rattigan(già portato sullo schermo l’anno precedente da Olivier con Il principe e la ballerina),Williams della Rosa tatuata(con Magnani e Lancaster bravi certo,ma più che altro incontenibili)e Chayefsky per quel gioiello che resta Marty,vita di un timido:non si muove nulla sullo schermo che non sia già accaduto sul palcoscenico.
La sensibilità per gli ambienti quasi sempre,almeno nella prima fase della carriera,affondati in un suggestivo bianco e nero,la direzione degli attori sui quali non si doveva spesso fare un lavoro particolare in quanto già molto esperti e la fissità della cinepresa che non pretendeva di aggiungere alcuna invenzione che non seguisse il dialogo non raggiungono però,non completamente almeno,un motivo d’interesse che riesca a illuminare questa storia di solitudini incrociate.
E,soprattutto,Mann non riesce a farci affezionare a questi individui per la loro simpatica riluttanza a rendersi in un modo o nell’altro meritevoli di farsi ricordare,potremmo dire convinti che la loro solitudine abbia qualcosa di memorabile che in realtà non c’è,tutti attentamente all’ascolto di una musica che resta interiore e intraducibile,distante dallo spettatore che ascolta,ascolta ma non arriva a nessuna particolare rivelazione.
E questo nonostante il notevole cast che più che aderire ai personaggi e alle loro ragioni si guarda intorno con circospezione,amministra liberamente sé stesso e,questo non lo si deve ignorare,concede qualche occasione se non di commozione almeno di cauta partecipazione.
Ognuno di loro disegna secondo le proprie intuizioni e possibilità un personaggio che prima o poi trova un’occasione di rendersi più cosciente di sé,più pronto a dichiararsi,secondo quell’istinto a reagire al dialogo difficoltoso con l’altro che nasconde l’incomunicabile bisogno d’affetto affondato nelle chiacchiere da salotto.
Si potrebbe dividere la specifica efficacia delle loro prestazione fra quelle fornite da Hayworth e Lancaster solidali l’uno verso l’altra ma non così credibili come coppia,a causa di una confidenza mancata che li distanzia e non comunica l’esigenza dell’abbraccio reciproco,da un Niven di imbarazzo mellifluo e una Kerr nel punto forse più alto della mortificazione fisica per cui non di rado veniva chiamata e che qui mostra qualche prostrazione di troppo,e la prova di Wendy Hiller che concentra su di sé la coscienza superiore che manca agli altri,l’unico vero personaggio a tre dimensioni del film reso da questa attrice senza un errore di intonazione,senza una prolissità nell’avventurarsi all’interno di un palpabile disagio femminile,depositato in una saggezza priva di obblighi e di superflue tenerezze.
La ronde sentimentale consumata,quasi costretta in un luogo in cui si cita un mondo a cui si agogna di partecipare da un parte(Niven e Kerr) e si vorrebbe astenervisi dall’altra(Hayworth e Lancaster),o che fa parte di una memoria che si ricorda solo nelle convenzioni e nelle squisite ipocrisie sociali,si presta ad una consultazione senza novità,accettata come può succedere a vecchie storie mille volte raccontate,e che a distanza di mezzo secolo attrae l’attenzione come un vecchio cimelio,un oggetto non più utile ma che ha il fascino di qualunque cosa arrivi dal passato,un volume scritto chissà quanto tempo fa e suscita tenerezza non tanto per il suo contenuto quanto per le pagine ingiallite.
Un professionale Lancaster,più generoso che incisivo,che si presta a suggerire il disagio virile poco corrisposto dalla realtà che avrebbe perfezionato nella maturità.
Rispetta il proprio destino di icona,di donna costretta in un involucro di impossibile eterna giovinezza,increspata dalla malinconia che se prima era suggerita,ora ha il dolente peso del bilancio.
L’aplomb con cui interpreta il sedicente maggiore è appropriato per farlo sfuggire alla tetraggine della sua situazione e al pericolo di renderlo un inetto millantatore.
Aveva un certo coraggio nel confrontarsi spesso con vaporose signore,come le capita qui con Hayworth come pure,in passato e in futuro, con Gardner,ma la nevrosi di Sybil non è domata fermamente,e anche se ci sono attimi di brillante e amaro divertimento,ne fa una vittima meccanica.
Più riuscita quando tenta l’indagine nei reali disagi di queste anime impacciate e esauste,che non quando ossequia il testo,cioè quasi sempre,il che lo rende un corretto impaginatore di virtù chiare ma non enormi
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