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Tavole separate

Regia di Delbert Mann vedi scheda film

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La recensione su Tavole separate

di (spopola) 1726792
8 stelle

Mann si conferma un insostituibile, bravissimo direttore di “talenti”. Peccato che non riesca con analogo vigore ad infondere accenti nuovi e personali anche al racconto, liberandolo dalla teatralità eccessiva della parola che è forse il limite più evidente di una pellicola che si conferma comunque di fortissimo impatto emotivo.

Immagino che sia stata la recente visione dell’ottimo “Flags of our fathers” a farmi riaffiorare dalla memoria l’ormai da tempo obliato nome di Delbert Mann: intendiamo, non che ci siano punti di contatto oggettivo “nel modo di intendere e di fare cinema” fra la lucida coerenza emozionale di Eastwood e l’onesto (ma a volte un po’ scialbo) artigianato di Mann (straordinario direttore di attori e valido creatore di atmosfere comunque, certamente un abile confezionatore, soprattutto nella parte iniziale della sua carriera, di pellicole di buona grana capaci di emergere dalla media omologata, godibili e coinvolgenti, realizzate in maniera impeccabile e delle quali si ha spesso un’accorata nostalgia nel progressivo livellamento verso l’anonimato di moltissima paccottaglia “di cassetta” che ci arriva da oltreoceano priva di anima e di contenuti) solo che è venuto inevitabile il ricordo di una vecchia produzione (un piccolo, insolito film) da quest’ultimo diretta agli inizi degli anni ’60 dal titolo de “Il sesto eroe” (“The Outsider” in originale) che si ricollega direttamente al capolavoro di Clint, visto che è la rappresentazione molto meno articolata, forse un po’ troppo prolissa e “moraleggiante”, ma dati i tempi non si poteva davvero pretendere di più, proprio della storia di uno di quegli antieroi (o “eroi per forza e per necessità pratica di propaganda”) legati all’icona della bandiera innalzata sulla cima della collina di Iwo Jima, e più esattamente quella dell’indiano Ira Heyes – il più combattuto e controverso fra tutti i superstiti accreditati – ben reso nelle sue lacerazioni interiori e nei suoi conflitti rabbiosi fra riscatti e perdizioni, dall’ottima, efficace interpetazione di Tony Curtis (ancora una volta forse il pregio maggiore, se ricordo bene). Ma non è ovviamente di questo film che intendo parlare anche perché non mi è capitato più di “rivederlo” da quegli anni lontani, e sarebbe un po’ difficile poterne dare adesso una valutazione davvero attendibile (spesso la memoria gioca persino brutti scherzi in questo senso e non è possibile affidarsi semplicemente alle reminiscenze appannate se vogliamo essere oggettivi). Si tratta quindi solo di un preambolo forse un po’ lungo, ma necessario, per spiegare (o in qualche modo “giustificare”) le ragioni che hanno determinato questa mia tardiva incursione nella poetica di un cineasta manieratamente corretto – a volte privo di guizzi - ma insostituibile “traslatore” di storie in immagini con i ritmi giusti dello schermo come Delbert Mann, classe 1920, un regista molto acclamato al suo esordio (si potrebbe dire davvero che aveva fatto un “debutto col botto”) ma velocemente decaduto, accreditato come il “creatore” di una nuova corrente, una specie di “tardo e necessario neorealismo americano”, per il taglio dato alle inquadrature, la quotidianità dei dialoghi e la “veridicità dei personaggi” tutti presentati nella rozza consuetudine della rappresentazione conforme di una realtà vera e non artefatta come difficilmente accadeva ad Hollywood e dintorni in quegli anni, che fu prerogativa peculiare delle sue prime opere, e che in qualche modo sembrava volersi contraporre, scardinandolo, al patinatismo eccessivamente laccato di troppa produzione corrente di quel periodo. Fu “Marty, vita di un timido” il suo effettivo debutto, una interessante pellicola che il tempo ha forse un po’ ridimensionato, con la quale fece incetta di premi sia a Cannes che nella notte degli Oscar (aggiudicandosene addirittura quattro: miglior film, migliore sceneggiatura, miglior regista e miglior interpretazione maschile assegnata all’ottima prova di Ernest Borgnine), seguita dal certamente meno significativo ma comunque pregevole “La notte dello scapolo” (ancora un film soprattutto di interpreti), una nuova conferma di una “direzione” volutamente minimalista, uno stile adeguato al contesto, che sarebbe stato però rapidamente abbandonato per proseguire su altri e più redditizi percorsi che però non lo avrebbero più ripagato con la stessa moneta. E sono proprio queste le due commedie di provenienza televisiva (ottimamente rappresentate e strutturate, dal linguaggio insolito e popolate di personaggi usuali privi del consueto “glamour” a cui ci aveva abituato Hollywood) che avevano fatto gridare al miracolo, e ipotizzato la nascita di un autore capace di fare un cinema diverso, più intenso e credibile. Il tempo avrebbe poi dimostrato invece che le “qualità” (e anche i difetti e i limiti di simili operazioni) erano probabilmente attribuibili in massima parte al talentoso apporto della scrittura di Paddy Chayefsky, creatore delle pieces di partenza e degli adattamenti cinematografici conseguenti (e una conferma indiretta si può avere proprio constando che anche la positiva riuscita del successivo “Nel mezzo della notte”, con le indimenticabili interpretazioni di Fredrich March e soprattutto di una superba, struggente, straordinaria Kim Novak mai più così intensa e appropriata) è ancora riferita a una pellicola tratta da una commedia di questo autore e da lui adattata personalmente per lo schermo. Probabilmente Mann aveva proprio bisogno di un credibile supporto di sceneggiatura, una solida base che costituisse l’impalcatura necessaria e imprescindibile per costruire al meglio il manufatto finale, visto che le sue qualità di valido “raccontatore in immagini” correttamente appropriate alla bisogna, non erano oggettivamente particolarmente creative e questo sembra essere confermato dal fatto che una grossa fetta di sue produzioni è proprio di derivazione letteraria, seppure con alterne fortune e risultati finali molto discontinui fra loro (dall’irrisolto “Desiderio sotto gli olmi” da O’Neil a “”Il buio in cima alle scale” da Inge fino ai più tardivi adattamenti di “David Copperfield”, “Jane Eyre” e al non entusiasmante riallestimento di “All’ovest niente di nuovo”). A questa fase soprattutto iniziale che privilegiava l’intensa e partecipata collaborazione fra “scrittore e regista”, appartiene a buon diritto anche “Tavole separate” del 1958 (che ho rivisto proprio recentemente e del quale intendo parlare in questa circostanza se qualcuno ha ancora voglia di seguirmi dopo questo lungo e interminabile sproloquio): ancora una volta un copione di ascendenza teatrale che gli assicurò una copiosa dose di candidature Oscar – ben 7 - molte delle quali riservate all’eccellente cast selezionato e magistralmente diretto, che fruttarono poi solo due riconoscimenti finali alla memorabile e disincantata prova di David Niven quale miglior interprete maschile nel ruolo di un timido ufficiale che nasconde le sue insicurezze dietro una facciata di finta spavalderia e all’indimenticabile Wendy Hiller quale migliore attrice non protagonista. Il film, visto oggi, al di là delle strepitose prove attoriali, ha perso forse una piccola parte di quel “fascino” un po’ morboso che lo scontro di un mondo di solitudini inconciliabili lasciava in qualche modo percepire, così legato al periodo in cui fu concepito. Direi che probabilmente sono le “modalità” di rappresentazione, comunque efficaci e pregnanti ma di stampo ampollosamente teatrale a risultare un poco invecchiate forse proprio per la mancanza di quei “movimenti interni – mi viene da dire di “quei colpi d’ala” , quelle impennate sublimi - che si ritrovano per esempio in Kazan o Minnelli e soprattutto in Wyler quando affrontavano analoghi cimenti. Qui la regia è – passatemi il termine - più grigia e meno palpitante anche se di analoga, ineccepibile resa. E si può dedurre che, come Chayefsky era stato il vero artefice delle tre pellicole sopra citate, anche “Tavole separate” nel bene e nel male è un’opera più facilmente attribuibile a Terence Rattingan, autore della commedia di riferimento e co-sceneggiatore della versione filmica, che non allo stesso Mann. Rattingan, pregevole autore di un teatro di parola, era in quegli anni un commediografo sulla cresta dell’onda (a lui si deve anche “Ross” dramma che traccia la storia degli anni conclusivi della vita di Lawrence D’Arabia) regolarmente rappresentato con costante e crescente successo, sui palcoscenici di tutto il mondo. Ed è proprio per il teatro che nasce “Tavole separate”, probabilmente concepito per consentire a una coppia di mattatori di confrontarsi ciascuno con due personaggi in “antitesi” e dimostrare così le loro camaleontiche capacità istrioniche, rappresentando in ciascuno dei due atti, una differente tipologia di “anima” in disarmo (il generale e lo scrittore ubriacone l’uomo, la zitella inacidita e la bellezza un po’ sfiorita alla riconquista del marito la donna). Analizzando con attenzione il testo, si avverte la intelligente costruzione figlia della propria epoca, dei conflitti interni, ma soprattutto finalizzata a dare credibilità e risalto a questo funambolico risultato “attoriale” perché in effetti il copione ha un andamento direi prevedibilmente scontato, con una scrittura arguta ma molto di superficie, che “non vuole” scavare davvero in profondità. Il difetto, se così si vuole definire, si propaga inesorabilmente all’opera cinematografica che ne deriva, così poco autonoma da portarsi dietro quel leggero gusto di “stantio” che inevitabilmente si avverte e che il regista cerca di “contenere” sottolineando impeccabilmente l’effettistica dei teatralissimi colpi di scena che sono il succo e il cardine di ogni dramma che si rispetti, ma senza arrivare davvero al fondo delle coscienze e dei conflitti (e c’è una “scena madre” fra Burt Lancaster e Rita Haywort che può richiamare perfino alla mente il pallido ricordo di uno di momenti fondamentali e più travolgenti di “Un tram che si chiama desiderio” di Kazan, senza ovviamente averne lo stesso peso “dilacerante”, quella in cui Brando costringe la Leigh a guardare la sua faccia imbellettata e disfatta, nello specchio che la riflette impietosa, sotto la luce implacabile della lampada). Ma torniamo ad analizzare da vicino l’opera cimenatografica (che è poi quella che maggiormente ci interessa in questa circostanza): i personaggi principali sono quattro che qui, più realisticamente, sono affidati a quattro differenti interpreti, in modo da intersecare fra loro le due storie di riferimento e da far effettivamente coincidere come unità di tempo, i drammi che si snodano sotto i nostri occhi. Quattro protagonisti ai quali si aggiunge il complesso ruolo di Miss Cooper, la tenutaria dell’albergo dove si svolge l’azione, solo apparentemente secondario, ma vero fulcro delle storie che si dipanano e si intrecciano sul comune, malinconico sfondo di quella piccola pensione vittoriana di una cittadina balneare in un periodo di bassa stagionalità turistica. Ed è il tema della solitudine ad essere dominate e a fare da collante a tutto l’insieme, quello dell’incapacità di comunicare con gli altri persino all’interno degli spazi ristretti di un ambiente in cui - nolenti o volenti - due volte al giorno ci si trova comunque gomito a gomito per il pranzo e per la cena, seduti - accanto, ma distanti - a quelle “tavole separate” simbolicamente allusive citate nel titolo. Personaggi dolorosamente infelici, persino rassegnati, incapaci di risolvere i problemi più elementari della vita e di individuare le radici profonde che determinano la propria inadattabilità alla realtà oggettiva. Figurine inquiete, fragili e nevrotiche, tristi rappresentanti di un’epopea in declino, titubanti e paurosi, così insicuri da non avere nemmeno il coraggio di affrontare i fallimenti della propria esistenza e costretti per questo a tentare di trovare rifugio e conforto, comunque deleterio e artificioso, in scappatoie inappaganti e deprimenti come quelle dell’abuso di alcool o del ricorso alle pratiche di inconfessabili “vizi segreti”, a seconda dei casi e delle circostanze. Creature che si muovono in un clima di frustrazione e di naufragio morale malamente mascherato da una vernice di ipocrita rispettabilità. E la pensione fuori dalle mode e dal tempo, è il nascondiglio dove pensano di poter trovare una improbabile, definitiva ospitalità consolatoria alla loro deriva queste anime perdute e senza speranza. Ed ecco che al pettegolo e avvizzito coro dei pochi pensionanti stabili, alla consueta monotonia incolore delle giornate, si unisce una sera Anne che arriva da lontano, una sfiorita ma ancora avvenente signora dal passato glorioso, ma ormai in declino e per questo torturata dalla solitudine, che ha fatto il lungo viaggio dall’America nel disperato tentativo di cercare di recuperare il marito, uno scrittore fallito e ubriacone che probabilmente non ha un buon ricordo della loro vita passata insieme, e che sta invano tentando di “rifarsi” una esistenza ancorandosi – sentimentalmente parlando - alla secca e rassegnata amarezza senza gioie o speranze, proprio dell’avvizzita proprietaria della pensione, una disillusa e accorata, dimessa, arrendevole, ma al tempo stesso trepida e caparbiamente consapevole, Wendy Hiller davvero splendida. E questa è la prima delle due storie. Più patetici e meschini i protagonisti della seconda, un anziano ex ufficiale che si atteggia a glorioso reduce, ma che ha il vizio (e sarà per questo “scoperto” e sputtanato sui giornali perdendo la sua rispettabilità di facciata) di molestare le donne nel buio dei cinema (David Niven appunto e il suo meritato premio Oscar) e una zitella isterica vessata da una madre repressivamente ottusa (una superlativa Gladys Cooper), tirannica e incomprensiva che la opprime e non le lascia spazio, una donna precocemente avvizzita che “ha paura dell’amore” e nessuna fiducia in se stessa così consapevole com’è della sua scarsa avvenenza, oggetto dei sui corteggiamenti: due timidezze patologiche che incontrandosi, potrebbero persino risultare salvifiche (e non è detto che non riescano davvero, nonostante gli accadimenti, a sfociare in una positività di risultato). Sullo schermo, i personaggi sono resi con assoluta precisione nei loro tratti caratteriali, e in questo Mann si conferma appunto un insostituibile, bravissimo direttore di “talenti “ (e da ognuno degli attori impegnati, sa davvero estrarre il meglio delle loro qualità interpretative). Peccato che non riesca con analogo vigore ad infondere accenti nuovi e personali anche al racconto, liberandolo dalla teatralità eccessiva della parola che è forse il limite più evidente e pesante, dando all’insieme la linfa vitale dell’autonomia personalizzata, anziché limitarsi a fare il diligente e concreto “illustratore” di Rattingan, commediografo come ripeto, di moda in quegli anni, inventore senza particolare estro creativo di commedie e melodrammi e qui soprattutto preoccupato, più che di denunciare i problemi, le ipocrisie, gli scandali e i malesseri della società che così bene conosce e sa rappresentare, di ridurli al metro edulcorato, inoffensivo e falso delle convenzioni di palcoscenico conformi alle regole di un teatro di stampo borghese, nel quale resta perfettamente inserita e ossequiente quasi tutta la sua produzione. In “Tavole separate”, nonostante la coinvolgente emotività di molte situazioni, si rappresentano in fondo solo le conseguenze, sorvolando velocemente sulle cause scatenanti che le hanno determinate, e prospettando poi soluzioni persino troppo facilmente abbordabili e “a portata di mano” semplicemente con un po’ di buona volontà da ambo le parti, davvero un po’ troppo consolatorie e concilianti e che il tempo e gli anni trascorsi, rendono ancor più improbabilmente artificiose. Nonostante questo però “Tavole separate” risulta ancor oggi una pellicola di “fortissimo impatto emotivo”, indubbiamente un “interessante” documento di costume e anche – perché no? uno spaccato di umana sofferenza realizzato con ineccepibile tecnica affabulatoria di buona qualità, (nell’ambito ovviamente di quella modalità particolare di messa in scena che veniva definita appunto “teatro filmato”) proprio in virtù della sobria messa in scena, dell’alternarsi metronomicamente esatto delle situazioni, della progressione graduale e implacabile con la quale ci viene rappresentato la dolorosa esternazione di queste umane miserie e del loro venire a conflitto, e anche grazie all’ottima ambientazione, crepuscolare e attendibile, specchio di un’epoca e di un costume, ma soprattutto (e non mi stanco di ripeterlo) per la qualità eccelsa di tutti gli interpreti che rimane il vero punto di forza del film e che da solo varrebbe la visione della pellicola. Dei due premi Oscar (Niven e la Hiller) abbiamo già detto (come abbiamo già citato la strepitosa performance della Cooper) ma furono molti quelli che “topparono” per pochissimo, e non certo per loro demerito, l’ambito riconoscimento. Vogliamo citarli allora? Prima fra tutti, Deborah Kerr, la inacidita e succube zitella senza amore, un altro commovente indimenticabile ritratto di perdente che “ha fatto storia”, e ancora una inappuntabile e coraggiosa Rita Hayworth, che rappresenta credibilmente i “sofferenti e sentiti bisogni di affetto” di una donna in declino e un Burt Lancaster intenso e istrionico scrittore vinto dall’alcol e dalla delusione. Nella “cornice,” Cathleen Nesbitt, Felix Aylmer, Priscilla Morgan e un giovanissimo Rod Taylor, tutti appropriati e pertinenti, capaci di integrarsi alla perfezione in un insieme corale di gran fascino, piccole immagini che si “stagliano sul fondo”, commentatori distratti del dramma e a loro volta protagonisti di piccolissimi e gustosi contrappunti, per un risultato coeso ed efficacemente pregnante.

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