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So cosa hai fatto

Regia di Jim Gillespie vedi scheda film

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La recensione su So cosa hai fatto

di scapigliato
8 stelle

È sempre piacevole vedere belle fiche che urlano e bei ragazzi che vengono spappolati. Non c’è nulla di perverso, è solo la rappresentazione rituale dell’esorcismo della morte e dell’auspicio della fertilità. Cacciare il lupo dalle greggi o i parassiti dai campi di grano o la nera signora dal letto dal malato, sono pratiche vecchie tanto quanto il mondo e moriranno solo con esso.

Ed è di questo che si occupano i film dell’orrore e prima di loro la letteratura nera. Esorcizzare la morte attraverso la pratica della rappresentazione catartica, mascherata da intrattenimento o da piacere estetico, poco importa. Ci infiliamo nei cinema o sprofondiamo sul divano di casa a luci spente proprio per giocare a rimpiattino con la morte e le sue sorelle: la paura, l’angoscia, la perturbazione e così via. E anche lo slasher movie, il più delle volte declinato al teen horror, nonostante non percorra i sentieri tortuosi e inquietanti dell’horror perturbante, sa esaurire con tutto rispetto la sua funzione rituale. Difatti, lo slasher movie è per lo più un filone terrorifico ideato per gli adolescenti e con adolescenti, o per lo meno collegiali. Carne giovane comunque, fresca ed invidiabile, e per questo preferibile per un sacrificio rituale che preveda l’illusione dell’allontanamento della morte uccidendo la giovinezza. Ed è quello che fa, con i suoi limiti ovviamente (*), anche So Cosa Hai Fatto e i suoi sequel.

Siamo in pieni anni ’90, l’ultimo decennio della concretezza e della fisicità reale, poi con il cambio di millennio tutto diventa finto, posticcio, liquido, virtuale. La trama del film diretto da Jim Gillespie è semplice come il suo sviluppo, ma può essere un mitologema efficace e piacevole nella sua modulazione. Un gruppo di liceali, alla loro ultima estate prima del college, uccidono accidentalmente un uomo e ne occultano il cadavere. Si promettono di tacere sull’accaduto per il resto della loro vita e si separano. A un anno di distanza qualcuno che conosce la verità si fa vivo e inizia a perseguitarli fino all’inevitabile massacro.

Il film conferma lo stato di grazia di Kevin Williamson a metà anni ’90 come autore di un nuovo immaginario horror improntato sul gioco dei ruoli, delle funzioni attoriali, della (in)variazione sul tema, dei meccanismi della scrittura di genere e infine delle chiacchierate citazioni. Film come i primi due Scream (1996, 1997) e The Faculty (1998), compreso So Cosa Hai Fatto, sono teen-horror “ganzi” dove la paura è assente, ma è vivido e palpitante il gioco adrenalinico del meccanismo orrorifico di fine millennio atto a rielaborare gli schemi del racconto nero e a rivivificare l’immortale rito di esorcizzazione della morte attraverso la messa in scena di uno spargimento di sangue. In Williamson la mattanza non è estetica come negli autori anni ’60-’70-’80, ma pratica plastica sul modello tarantiniano, complice ovviamente l’intuizione registica di Wes Craven e Robert Rodríguez.

L’incipit ricorda molto da vicino quello carpenteriano di The Fog (1980). Un paese costiero di pescatori, una notte di mezza estate in spiaggia, il falò e il racconto di una leggenda macabra, una storia di morte e raccapriccio, di quelle che da ragazzini ti mettevano i brividi anche se sapevi che erano false. Come in Carpenter anche in Gillespie la scena permette di scendere nella tana del bianconiglio e perdersi in un altro mondo dove tutto è capovolto. Dall’euforia della prima copula e dall’euforia di un presente da reginetta della scuola e un futuro da attrice a Hollywood si passa alla spirale di incubi e ossessioni persecutorie che riducono tutto a un mero strascico verista: la rottura con il fidanzato, il lavoro come commessa nel negozio di famiglia, quello duro del pescatore come faceva il padre mai conosciuto e così via.

Un altro spunto interessante della scrittura di Williamson è l’aspetto politico del film. Non si può non vedere nella spaventosa vicenda dei quattro ragazzi capitanati da Jennifer Love Hewitt la rappresentazione di una società alle prese con l’espiazione delle proprie colpe. L’omicidio, non voluto o accidentale, resta sempre un delitto che, nel momento in cui viene occultato e rimosso dalla propria coscienza diventa l’ombra minacciosa di un’intera comunità. L’America, nei vari genocidi voluti da dio in cui si è felicemente immischiata, ha collezionato così tanti cadaveri che gli armadi e gli scantinati hanno cominciato a non avere più troppo spazio e a vomitare fuori tutte le loro putrescenze – ricordate la frase di lancio de Dawn of Dead (1978): quando non ci sarà più posto all’inferno, i morti cammineranno sulla terra. Una di queste putrescenze è il Ben Willis con tanto di arpione che perseguita i vecchi amici ad un anno dall’incidente.

Se tralasciamo l’irrisorio apporto erotico – non basta Ryan Phillippe in doccia a scaldare l’atmosfera – e la chiara sterilità dell’impatto violento che, come nei vari Scream, non vuole disgustare, ma semplicemente sterilizzare la violenza stessa attraverso l’accumulo delle iperboli, e invece guardiamo il film nel suo aspetto formale e fabulistico non possiamo che divertirci e veder rappresentate negli intrecci della trama le varie istanze narrative classiche del genere, oltre che all’interessante lettura politica di cui prima.

Il sequel del 1998, da noi  Incubo Finale, cambia totalmente la struttura narrativa e in luogo di uno sviluppo centripeto e claustrofobico – la persecuzione del pescatore uncinato nel piccolo paese costiero – preferisce quello centrifugo ed esotico senza riuscire ad utilizzare appieno i temi e i motivi del caso. Non c’è una trama ragionata e pensata, ma solo una serie di scene trite e ritrite che nemmeno davanti all’intuizione interessante della tempesta tropicale che tutto isola riescono a potenziarsi di bellezza immaginifica.

Caso diverso è il terzo capitolo del 2006. Completamente slegato dai precedenti due film e con attori e maestranze totalmente differenti, compresa l’ambientazione – qui siamo sui monti dello Utah tra fienili e redneck con birra in mano – riesce a sviluppare una trama più interessante e coinvolgente, ma soprattutto più credibile del secondo capitolo, anche perché ha tutta l’aria di essere un remake della pellicola sceneggiata da Williamson con un gruppo di ragazzi che dopo uno scherzo finito in tragedia sono perseguitati da un killer uncinato che cerca vendetta.

È ovviamente un film senza arte né parte che si lascia vedere senza impegno a completezza di una trilogia che non è stata in grado di creare un’icona horror della stessa portata del coevo Ghostface o delle vecchie e immortali maschere di Michael, Jason, Freddy, Leatherface  e compagnia, oltre a non essere nemmeno un’icona adeguata ai nuovi tempi – cosa che comunque non ha saputo fare neppure lo Smiley dell’omonimo film del 2012.

(*) I limiti della pellicola di Gillespie sono comuni a molti prodotti dello stesso tipo. La regia presente a corrente alterna – tipo che se non ci fosse stata la sceneggiatura di Williamson ci saremmo trovati davanti a un pastrocchio – e la recitazione approssimativa dei giovani attori – la Love Hewitt e la Gellar oltre non essere bombe erotiche non sono mai state brave attrici, mentre Prinze Jr non ci è pervenuto; si salva solo Phillippe – non aiutano a giocare bene le carte giuste del film zavorrandolo fino il twist conclusivo poco affascinante e troppo prevedibile.

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