Regia di Amjad Abu Alala vedi scheda film
Venezia 76 – Giornate degli autori.
Non importa di che ambito si tratti, credere ciecamente in un partito preso, inviolabile per vincoli religiosi/politici/culturali tramandati nel tempo senza ascoltare e valutare alcuna ragione, è una limitazione, che assume la fisionomia di una sciagura quando soffoca in maniera inequivocabile la libertà individuale.
L’assunto di You will die at 20 è quanto di più condizionante si possa pensare, un vettore propedeutico alla descrizione di un modello sociale ancorato alla tradizione arcaica qual è quella vigente in Sudan. Ma ancora più utile per condividere e promuovere un’irrefrenabile volontà di estirpare le catene che impediscono il cambiamento, regalando alle nuove generazioni un’alternativa divergente.
La vita di Muzamil (Mustafa Shehata) è stata influenzata dall’attimo stesso della nascita, quando lo stregone del villaggio predisse la sua morte al compimento del ventesimo anno di età. Questa notizia provocò la fuga del padre, costringendo sua madre Sakina (Islam Mubarak) ad affrontare l’impervio compito di gestire una crescita a tempo determinato.
Mentre si avvicina all’età predestinata, Muzamil scopre cosa significhi amare e, grazie all’amicizia con un forestiero, che al di fuori del suo villaggio fioriscono modi diversi di vivere e giudicare le scelte altrui.
You will die at 20 è la prima pellicola sudanese selezionata dalla Mostra internazionale del cinema di Venezia, ma è anche un’opera prima, premiata come la migliore dell’intera manifestazione.
Un esordio con il botto per il regista autodidatta Amjad Abu Alala, non esente da controindicazioni ma spronato da un’energia incontenibile.
Per la sua colonna vertebrale, potremmo etichettarlo come un coming of age, ma poi l’ambientazione - parliamo di un villaggio arroccato su se stesso, un The village senza macchinazioni (purtroppo, è tutto potenzialmente vero) – gli garantisce un profondo pozzo dal quale attingere. In questo, il regista sfoggia un coraggio da vendere in quanto, dopo aver lanciato il sasso, non ritrae la mano.
Così, il bagaglio delle argomentazioni contempla la caducità della vita, i divieti imposti dalla guida morale, le angherie dei bambini (il protagonista è soprannominato il figlio della morte) e la condivisa rassegnazione per un fato avverso e inappellabile, ma anche gli scossoni dell’amore e l’apertura a un futuro da riscrivere, offerta su un piatto d’argento da uno sguardo esterno, un modo per accendere sogni mai nemmeno immaginati e puntare il mirino oltre le restrizioni, ampliando gli orizzonti.
Un grimaldello per scuotere dal torpore, sfruttato dal regista per aggiungere note cinefile che, insieme a qualche tratteggio colorito (un’anziana in attesa della morte, che però non pare avere alcuna intenzione di visitarla), contribuiscono a creare un effetto da montagne russe, tra il dramma e la leggerezza, un’impostazione solenne e una prospettiva di rottura.
Dunque, You will die at 20 è estremamente movimentato e ricorre a un linguaggio aperto al dialogo, più internazionale di quanto si potesse ipotizzare. È soggetto a soventi strigliate, ma innaffiato dal desiderio di aprire un canale di comunicazione con il mondo, mostrando una partecipazione che esplode in un (sacrosanto) finale liberatorio, chiaramente debitore di capisaldi della Storia del cinema (a partire da I 400 colpi).
Trasparente e temerario.
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