Regia di Rubaiyat Hossain vedi scheda film
TFF 37 - TORINOFILMLAB
Shimu è una giovane donna che, col suo faticoso lavoro presso una fabbrica tessile di Dacca, mantiene anche lo sposo in attesa che costui riesca a reintrodursi nel mondo del lavoro, dopo un recente licenziamento.
Lo scoppio di un incendio in fabbrica, rappresenta solo l'apice di un processo di sfruttamento della manodopera che vige in quella impresa, ove le operaie vengono sottoposte a ritmi sfiancanti alla stregua di una vera e propria schiavitù, e vessate ad ogni accenno di ribellione.
La situazione non è che lo specchio singolo di una degenerazione dilagante ai danni del ceto debole, sfruttato ed angheriato dalla classe dirigente insensibile e avida di remunerazione. Un giorno Shimu viene in contatto con una solerte assistente delle categorie lavorative che, dopo aver intervistato la donna ancora sconvolta dall'incidente, la sprona ad organizzarsi in sindacato, arrivando a divenire ella stesa la portavoce dei diritti delle proprie colleghe sfruttate. Ma riuscire per arrivare alla formalizzazione del singolo sindacato, la donna dovrà sfoderare una grinta per lei inedita, in grado di sconfiggere, con un valido apporto di un po' di sana astuzia, la corruzione dilagante di troppa classe dirigenziale ed imprenditoriale.
Made in Bangladesh è un film lodevole nel prendersi carico di far luce sul noto degenerante fenomeno dello sfruttamento delle classi operaie, e delle donne in particolare (la pellicola sceglie scientemente di trascurare il fenomeno in ambito minorile probabilmente per evitare sovraccarichi narrativi).
Ma si rivela anche un prodotto che, con il suo slancio monodirezionale verso una denuncia di un fenomeno degradante ed evidente, finisce per divenire uno strumento troppo strumentale e smaccatamente acchiappa consensi, tutto luci ed ombre a senso unico, sul mondo dello sfruttamento del lavoro, femminile ma non solo.
Buoni poveri e vessati contro ricchi cattivi e ingordi: nessun'altra sfumatura al servizio di una missione acchiappa-seguito che può ritenersi riuscita appieno, se si osserva la reazione esaltata del pubblico esaltato qui alla proiezione festivaliera del TFF. Pubbblico che si indigna, come è pur giusto che sia, ma che casca anche in ogni minimo trabocchetto narrativo in modo incondizionato e ciecamente partecipe, uscendo dalla sala con la soddisfazione un può puerile disegnata sul volto, come se fosse oure lui riuscito a risolvere, al pari della tenace protagonista, una evidente, dilagante piaga e prevaricazione sociale. Ovvero cinema che strumentalizza senza la minima sfumatura, per cercare unanimi epidermici consensi.
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