Regia di Gerard Quinto, Esteve Soler, David Torras vedi scheda film
Film indeciso sul da farsi. Prima di fuggire, bisogna trovare una valida ragione. Alcune possono fare l'effetto di una bomba, ma ciò che è eccessivo, magari, non convince.
La fantasia fatta a pezzi. L’ironia segmentata. Un film a episodi che spacca ogni logica, a cominciare dal quella dell’unità di argomento, dell’omogeneità di registro. Dimenticatevi, soprattutto, la coerenza con il titolo. Nessuna polemica contro gli usi correnti e la diffusa morale. Solo eccessi surreali di cinismo, senza nessun aggancio con l’attualità. Una rassegna di ciò di cui, al limite, potremmo essere capaci, se fossimo smisuratamente folli, e, insieme a noi, anche il mondo fisico, con le sue leggi, avesse perso l’intelletto. Ne nascerebbero solo brutte storie, difficili da raccontare, tra azioni bloccate e parole pronunciate a fatica. Questa è la parte ostica del discorso, la consistenza indigesta di un’opera tanto disorganica ed acerba, da sembrare rozzamente incompiuta, messa insieme cucendo scarti di lavorazione, di idee che si sono realizzate con convinzione, ma nella totale assenza di stile. Si direbbe un collage di espressionismo alle prime armi, manifestazione sperimentale di un linguaggio tagliente e dissacrante che non abbia ancora trovato la giusta maniera di urlare. Si potrebbe bocciare tutto senza pietà, dato che un’arte che punti all’eccesso non può, nella forma, ammettere stentate mezze misure. Oppure si potrebbe esitare, colti dal dubbio che, una volta raggiunto l’estremo del dicibile, ci si debba necessariamente fermare: non esiste un oltre in cui trovare migliori rifiniture e connotati più eleganti. Si sbatte contro il limite, e il tocco finale alla composizione è proprio dato da quella botta di frustrazione, che di colpo sfascia l’insieme. La sgradevole imperfezione vuole forse essere la traccia di un incidente che deve indurci a pensare. Ciò che non scorre rimane impigliato, in qualche punto della coscienza, e lì produce un groppo che non va né su né giù. I sette bocconi offerti dagli altrettanti episodi di questo film sono terribilmente acidi (Family), gelidi (Solidarity), assurdi (Order), ed hanno vari sapori di vecchio trash, di horror stantio, come di sangue rappreso e brividi mummificati (Work, Property, Progress) a cui si aggiunge, in coda, un pizzico di porno in salsa provinciale (Commitment). Lo sguardo, più che crudo e disincantato, si direbbe proprio nudo, con la percezione ingigantita e la sensibilità azzerata, come in un’allucinazione che spari al massimo l’acquisizione asciutta e razionale dei fatti. Probabilmente è proprio l’assenza di elementi di terrore, di autentico disgusto o di semplice tensione a rendere questo dissonante pot-pourri così poco godibile. Il suo stridore è un rude passaggio di unghie sui concetti, che graffia le abitudini mentali, senza con ciò far accapponare la pelle. L’aggressione è decisa, ma tutto sommato composta, mai selvaggia. Magari anche questa è una concausa della noia, che può cogliere, en passant, chi, fino in fondo, rimanga in attesa di una provocazione che davvero faccia male. O di una ragione di fuggire che trovi qualche riscontro credibile fuori dalla cornice artificiosa dello schermo.
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