Regia di Nanni Moretti vedi scheda film
Tre piani (con ascensore), e un film piatto? Tre storie, e un film (contr'ogni mazzantin-castellittitudine) lineare, limpido, coerente, classico e paradossalmente dinamico. "Guasto" è lo zeitgeist.
Nanni Moretti (comunque prima il nome e cognome, sempre, ché il film lo vediamo lo stesso, signor Dino Risi, anche se la crasi fra l’alter-super-ego Michele Apicella e la copia carbone amorale di Silvio Berlusconi non si leva di mezzo né di torno: epperò, quand’improvvisamente lo fa, ecco che… Eh già!) con “Tre Piani” (e due lacune, intervalli e divari di un lustro ciascuno), traslando assieme alle fide Federica Pontremoli e Valia Santella un’oper’altrui (e questa è una prima volta per il regista più autoreferenziale del circondario che del soggetto originale ha fatto costantemente sin dagli esordi l’affidabile detonatore della propria arte), l’omonimo ("Shalosh Komot") ed altrettanto freudianamente tripartito romanzo epistolare di Eshkol Nevo, firma e filma, senza esagerazioni metaforiche veicolate mediante una rappresentazione gestalticamente scenografica eventualmente troppo spinta di Es (una vetrata sfondata), Io (in fuga) e Super Io (una gran bella terrazza senz’abusi edilizi), quello che potrebbe essere definito il suo primo vero (“Caos Calmo” era sì molto suo, così come “il Portaborse” e “la Seconda Volta” - tutti esempi questi di film tratti da soggetti altrui preesistenti: romanzi, trattamenti, diari -, m’altrettanto no: diamo ad Antonello Grimaldi quel ch’è suo, qualunque cosa sia) film (prodotto da Sacher, Fandango, RAI e le Pacte) “alla francese” (e non è un complimento) della sua cinquantennale (e la cosa è letteralmente inconcepibile: come passa il tempo quando ci si diverte!) carriera, in pratica “il Caimano”, “Habemus Papam” e “Mia Madre”, dopo l’intermezzo di “Santiago, Italia”, privati (prima dell’eterno ritorno in grande stile attraverso questi territori col successivo “il Sol dell’Avvenire”) di qualsivoglia intervento autobiografico esplicito e di qualsiasi dispositivo metacinematografico diegetico ed extra-diegetico (“la Stanza del Figlio”, in pratica: solo che allora - a parte il passaggio dagli Hare Krishna al flash-mob tangheiro - si trattava di un cambio di paradigma nel suo cinema, maggiore persino rispetto a quello compiuto a suo tempo con “la Messa è Finita”), e questo è un complimento senz’alcuna contropartita d’applicare verso i citati predecessori diretti, e la sua opera più, se pur parzialmente, e dopo tanta fatica, consolatoria (e questo è un dato di fatto neutro, coadiuvato dalla fotografia urban-naturalistica di Michele D’Attanasio e dalle piovaniche musiche di Franco Piersanti), riuscendo nell’intento di dare corpo e volto attoriali (Margherita Buy, sul filo della sommessa perfezione di gran mestiere; e accanto a lei, dicotomici, un bravo Riccardo Scamarcio, mai sopra le righe, e una come al solito consapevolmente straniante, ricercatamente grezza e fuor d’ogni riga Alba Rohrwacher; e poi, non uno fuori posto e tutti rimarcabili, in ordine sparso: Elena Lietti, Adriano Giannini, Anna Bonaiuto, Paolo Graziosi, Denise Tantucci, Alessandro Sperduti, Tommaso Ragno, Stefano Dionisi, Teco Celio, Francesco Acquaroli, Sergio Pierattini, Francesco Brandi, Gea Dall’Orto e Roberto De Francesco) ai personaggi che si raccontano e che vengono raccontati dalle pagine dello scrittore israeliano: la prestazione recitativa di Moretti raggiunge il picco quando è sdraiato a terra cercando di proteggere testa e corpo dai calci e quando più tardi esce definitivamente di scena fuori campo: non è una battuta di cattivo gusto: nel primo caso torna utile il suo passato atletico-sportivo (raccogliersi a conchiglia) e nel secondo, in un ultimo atto dadaista, viene messa in evidenza, con la scrittura, la regìa e il montaggio di Clelio Benevento – in due parole: la sintassi letterario-cinematografica (tipo Llewelyn Moss che scompare fuori campo tanto nel romanzo di McCarthy quanto nel film dei Coen) – tutta l’ingombrante, iperriconoscibile, stridente ed identitaria performance precedente.
Tre piani (con ascensore), e un film piatto? Tre storie, e un film (contr'ogni mazzantin-castellittitudine) lineare, limpido, coerente, classico e paradossalmente dinamico. "Guasto" è lo zeitgeist.
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