Regia di Benny Safdie, Josh Safdie vedi scheda film
Howard Ratner è un uomo che ha dentro di sé il dono dell’errore e forse ne è anche cosciente. Semplicemente non ci fa caso, non ci pensa. Talmente abituato che non sa farne a meno e ridacchiando e raccontando un sacco di balle a chiunque gli capiti a tiro cerca di concludere piccoli e medi affari, mentre va e viene dal suo showroom.
Avevamo lasciato il Connie Nikas di Good Time nella sua frenetica attività per far uscire di prigione suo fratello, pensando di poter respirare dopo quel film girato, narrato e recitato a perdifiato. Un film ipercolorato, lisergico e fotografato con una macchina da presa da mal di mare, dove perfino Robert Pattinson sembrava più spettinato del solito. Ed invece il protagonista di quest’ultimo lavoro dei fratelli Benny e Josh Safdie, Howard Ratner, ci dà una tale accelerata che il film si è costretti a guardarlo in apnea, tale è il ritmo. Ritmo e movimento che sono tutti racchiusi nel continuo, imperterrito, frenetico andirivieni di un uomo che non ha soste e neanche si sogna di cercarsele. La sua vita è un continuo rimbalzo tra il suo showroom blindato, la casa che ha allestito per la sua amante, i passaggi in famiglia, le strade affollate del cosiddetto Diamond District di Manhattan e varia umanità costituita da tipi poco raccomandabili. Un film girato totalmente addosso, attorno, intorno e su Howard Ratner, a volte persino dentro (da non crederci ma è proprio così): il suo non è un sorriso, è una smorfia costante, con alcune rughe intorno alla bocca da cui spuntano i dentoni, che lo aiutano a dire continuamente delle cose, delle promesse, degli sfottò, degli insulti, su un viso che pare incassare qualsiasi situazione – sempre di male in peggio in verità – e perfino botte in qualche occasione. Incassate con noncuranza, pensando al dopo e a quello che stava per fare.
Howard Ratner è un uomo perdente, lo si capisce subito dopo qualche minuto: è la classica figura, di cui è ricca la letteratura, di ebreo che campa commerciando gemme preziose nel più classico ambiente newyorkese, ama il basket alla follia, e ancor più scommettere grosse cifre (che non dispone) sperando nella vincita che gli risolva per lo meno i problemi più immediati, è un marito ampiamente fedifrago e con una famiglia che si permette la vita che lui non può garantire, una donna a cui non fa mancare nulla (ovviamente una delle sue collaboratrici sul lavoro) che fa la civettuola con tutti, una famiglia di provenienza che rispetta i riti e le ricorrenze della religione. E forse non è neanche tutto. Una cosa è certa: non lo vediamo mai dormire, riposare un attimo, mangiare, andare in bagno, forse perché non ne ha il tempo. Lui corre (e la macchina da presa e noi assieme) e rimbalza tra le strade e i suoi loschi affari, tra un oggetto impegnato al banco e una delle mille telefonate dal cellulare di cui non può fare a meno. Ma sempre inseguito da qualche creditore, mentre magari lui sta a sua volta inseguendo il tizio a cui deve chiedere un prestito o mollargli un bidone per ricavare una mazzetta. Notiamo sin dall’inizio che è piuttosto agitato e impaziente: sta arrivando da una miniera dell’Etiopia – Paese storicamente noto per le ricchezze del sottosuolo - un grosso sasso contenente un’opale dal valore immenso, forse un milione di dollari, e lui, in modo ovviamente illegale, è riuscito ad appropriarsene. L’importante per lui è piazzare bene la gemma alla prossima asta, per poter finalmente sistemare i suoi affari, sempre in debito e di rincorsa.
Howard Ratner è un uomo che ha dentro di sé il dono dell’errore e forse ne è anche cosciente. Semplicemente non ci fa caso, non ci pensa. Talmente abituato che non sa farne a meno e ridacchiando e raccontando un sacco di balle a chiunque gli capiti a tiro cerca di concludere piccoli e medi affari, mentre va e viene dal suo showroom. La sua vita non va mai come spera, e forse non ci spera manco più: quando va di fretta c’è sempre un intoppo, quando cerca di parlare con calma con qualcuno è l’altro che va di corsa e non può aspettare, quando è il momento di concludere un affare buono non ne ha l’occasione, se impegna un oggetto prezioso al banco dei pegni arriva sempre tardi al riscatto, se la figlia ha un’esibizione teatrale a cui tiene tanto lui ci va ma il contrattempo che gli capita è catastroficamente più puntuale di lui e deve scappar via. Tutto è sbagliato intorno a Howard Ratner, ogni evento ha il suo corso che però non coincide mai con le sue intenzioni. Corridoi stretti dove bodyguards lo attendono per picchiarlo per affari sospesi, porte che non si aprono, telefoni che non rispondono. Ogni strategia, che organizza nel giro di qualche secondo, va in frantumi e quindi ne deve immaginare un’altra, più storta della precedente. E lui sopporta tutto, perché sa che la sua vita cambierà appena concluderà l’affare della vita, quello per cui val la pena di vivere e lui quell’affare ce l’ha proprio a portata di mano: l’asta per piazzare quell’opale e quindi l’enorme e incosciente scommessa su una tripla di combinazioni della partita decisiva del suo amico cestita Kevin Garnett, un nero altissimo che è alla fine della gloriosa carriera.
Potrà finalmente riuscire nella incredibile impresa? Risolverà d’un colpo tutti i suoi guai, riuscirà finalmente a venir fuori alla grande e per sempre, scappando via con la appariscente amante e quindi lasciare la famiglia e gli opprimenti parenti? Ma la domanda giusta è: quanto ci andrà vicino? Cosa mai potrà accadere per fallire l’impresa della vita così minuziosamente studiata?
Se i maledetti e frenetici fratelli Safdie realizzano un magnifico film perfettamente in linea con le attese e con il loro caratteristico stile, la sorpresa (in realtà fino ad un certo punto) viene da un enorme Adam Sandler, ennesimo caso di attor comico che si rivela grande interprete drammatico. Esibizione non nuova per lui, che infatti personalmente avevo apprezzato con grande ammirazione in due ruoli di film che a mio parere sono molto sottovalutati: l’ipnotico Ubriaco d’amore (recensione) del geniale P.T. Anderson e il quasi sconosciuto, commovente e drammaticissimo (e da me amatissimo) Reign Over Me, dove dimostra – specialmente nel secondo – una bravura inaspettata per il dramma. In questa occasione si adegua come un pongo al personaggio dei Safdie, ne fa una creatura propria, schizzata e frenetica proprio come, son sicuro, lo immaginavano i tre sceneggiatori (i due registi e Ronald Bronstein, lo stesso di Good Time). Ma è tutto il resto del cast che fa meraviglie e si mette a disposizione della direzione a quattro mani, ricamando personaggi realistici e caricati allo stesso tempo, tra l’iconico commercio ebraico dei diamanti e gli oggetti più kitsch che di più non è possibile, perché kitsch è proprio tutto l’ambiente in cui si sviluppano i fatti. Eppure sembra tutto vero, persino iniziare e terminare un film nell’intestino del protagonista, in cui la colonscopia nei titoli di testa e di coda pare illustrarci più chiaramente la labirintica vita vissuta tutta d’un fiato da Howard Ratner.
Non ci sono commenti.
Ultimi commenti Segui questa conversazione
Commenta