Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Cupe vampe. Svampite.
Ema e i suoi ardori, Ema brucia, Ema lancia-fiamme.
E ma è un fuoco fatuo; di quella fatuità che si sfoga per (sob)balzi enfatici e (s)balli rutilanti, sfociando in un’eruzione figurativa sfiatata, sterile, afona.
Eppure di verbosità e chiassosità ne è pervaso, il cargo filmico firmato Pablo Larraín; scagliato, com’è, con (auto)esaltazione, nell’iperspazio di configurazioni lucenti ed esposizioni luccicanti ma anche rivelazioni scioccanti, laddove una molesta batteria dialogica tra lo sciocco e lo sciroccato («Io sono l’amore»; «Io sono il male», e così via, de botto, senza senso) cerca di stordire e distrarre, riempire spazi e tempi, spiegare e dispiegarsi verso comodi orizzonti di ricercata stravaganza.
Un racconto che fluttua (ondi)vago tra conflitti verbali accesi – innescati da un legame squilibrato (Ema e Gastón, dodici anni di differenza, la prima ballerina alle dipendenze del secondo) nonché da una scelta ignobile (l’abbandono del figlio adottivo) di cui vediamo conseguenze e bruciature – e mosse dissennate quando non criminose: il paesaggio umano che ne emerge è un riverbero fioco, una rappresentazione laccata e balbettante.
Più che il fuoco – continuamente esibito negli atti da piromane della donna a mo’ di chissà quale intento riottoso –, il fumo: fumosi i personaggi, fumosi storia e contesto, fumosa la mèsse di istanze che animano i tormenti e le rivendicazioni di Ema.
Quello assemblato da Larraín non solo è un ritratto al femminile privo di sfumature e rilievi concreti, coerenti, ma anche un componimento invero manicheo e sorpassato, semplicistico, viziato probabilmente da uno sguardo e da un taglio prettamente maschili (oltre alla regia il cileno firma la sceneggiatura nella quale figurano altri due uomini): la conferma definitiva giunge al quadretto allargato nel finale, dopo il disvelamento di verità e azioni a cui non si crede nemmeno per un secondo (eh, l'istinto materno, signora mia).
Finiscono così in cenere, sotto le braci di una complessità solo di facciata, l’identità di Ema, i suoi balli catartici sulle note e gli impulsi della “nuova” musica (il reggaeton), le sue variegate attività sessuali: più che sintomi e segni di un’emancipazione da canoni prestabiliti e gabbie della società, evidenziano la visione sfocata, il capriccio annoiato di un autore-osservatore poco ispirato e poco attento al mondo che ci circonda e ai moti che lo abitano.
Da cui, l’artificio.
Fuochi, d’artificio: una tappezzeria pacchiana ricavata dagli ardori della giovine Ema, dal carico metaforico elementare, dalla scintilla di trasgressione (ma davvero dovremmo sentirci provocati per delle innocue, docili slinguazzate tra donzelle? Per delle caste ammucchiate?), dall'ambientazione chic, dal finale a effetto, da oggetti che bruciano intossicando l'aria senza un perché se non per fare scena.
Rappresentazione fugace e bollita, dunque, che vive unicamente dei valori produttivi e tecnici: i movimenti della mdp immergono efficacemente sebbene in modalità meccanica nelle sequenze di danza (in particolare nella ripresa di quella dinanzi al grande "sole" bruciante), mentre si appiattisce un po' nel tentativo di risaltare la sensualità dei volti e dei corpi; coreografie e scenografie convincono, ma nulla che esalti, e la fotografia imprime bene luci, colori e toni (accesi, acidi, notturni) di una Valparaíso dalle molte anime.
Troppo poco, per il buon Pablo Larraín, che ci aveva abituato a opere di ben altra caratura.
Oltretutto, francamente, Ema/Mariana di Girolamo, sospesa tra primi piani sostenuti con aria imbambolata di circostanza che vorrebbero tanto essere enigmatici (l'attrice però non è minimamente incapace di rendere l'inafferabilità del mistero), capigliatura ossigenata y ultraleccata e performance danzerecce stradaiole modaiole, risulta a tratti, anzi spesso, respingente.
Come il reggaeton, d'altronde: alla fine la sortita isterica di Gastón, che esprime le sue perplessità (eufemismo) su detta forma/attitudine, pare essere la sola vampata di verità di tutto il film.
Si accenda pure una pira funeraria su Ema.
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