Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Grenouille stava a guardare e sorrideva. A coloro che lo vedevano, il suo sorriso sembrava il più innocente, il più affascinante e il più seducente del mondo. Ma in verità sulle sue labbra non c'era un sorriso, bensì un sogghigno orrendo, cinico, che rifletteva tutto il suo trionfo e tutto il suo disprezzo. Lui, Jean-Baptiste Grenouille, nato senza odore nel luogo più puzzolente del mondo, che proveniva dai rifiuti, dagli escrementi e dalla putrefazione, cresciuto senza amore, che viveva senza una calda anima umana, unicamente per ostinazione e con la forza del disgusto, piccolo, gobbo, zoppo, brutto, evitato da tutti, un mostro sia di dentro sia di fuori, era riuscito a farsi benvolere dal mondo...
(Il profumo, Patrick Süskind)
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Ema è sensuale e anticonformista. Bollente come il desiderio, algida e impenetrabile come una bionda eroina hitchcockiana. Balla, Ema, al ritmo ossessivo del reggaeton. Valparaíso è la sua pista ed il suo corpo flessibile e sinuoso è una scossa tellurica che solleva le strade della città. Gli enormi palazzi di cemento fanno da scenografia, i movimenti frenetici della strada sono le coreografie, la musica riproduce i rumori assordanti della periferia cilena.
Il corpo di Ema si contorce al ritmo del sesso. Ema è l'oggetto mistico del piacere. Ema è il desiderio che si insinua nella psiche. Irrinunciabile come una striscia di cocaina. Ema è il dio cannibalizzato dalle perversioni dei fedeli. Nessuno riesce a resistere all'inebriante profumo che emana. Nessuno osa fare a meno di lei dopo averne addentato le carni.
Il marito Gastón, artista e coreografo, ha rinnegato i suoi istinti per spartire il letto con lei. Ha provato a legarla a sé con il ballo e con un figlio naturale ma il matrimonio che li ha uniti si sta sfaldando sotto il peso del fallimento, del senso di colpa, della falsità. Gastón ed Ema hanno adottato un bambino ma le cose sono sfuggite di mano. Un figlio difficile. Ema è testarda, deve recuperare quel rapporto materno che un fuoco ha incenerito. Non ci sono ostacoli tra la bionda danzatrice e l'intento ormai limpido, che ha resettato ogni dubbio pregresso. Né Gastón, né il figlio, né il corpo di ballo possono mettersi contro di lei. Il fascino che sprigiona è un richiamo ingestibile per le più ferree volontà. Nemmeno il fuoco le resiste. Quel fuoco che ha messo fine al suo status di madre ora è un prezioso alleato. Ne rimane scottato chiunque: le amiche che non sanno sottrarsi al fascino compulsivo di Ema, il vigoroso pompiere che porterà vistose cicatrici per quella fiamma intensa ad ineluttabile.
Del corpo asciutto di Ema e dei suoi seni rimane vittima una fragile avvocatessa assunta per curarne il divorzio. Lei come le compagne di ballo. La musica intanto si tramuta in una danza provocatoria di corpi che fremono, che incedono verso di lei, che ricercano il proprio senso e accondiscendono ad ogni suo desiderio, ogni suo capriccio di donna impulsiva, madre sbandata, moglie carogna.
Si sentono gli echi lontani dello scandaloso profumo di Süskind nel nuovo lavoro di Pablo Larrain. Colori acidi, musica martellante che riproduce una filosofia di vita che sembra puro edonismo ma si rispecchia nel desiderio di vivere in modo profondo la vita, senza soste, senza compromessi, senza tabù. Larrain parla il linguaggio della strada, quello dei corpi e quello del sesso. Riproduce i suoni e i colori delle viscere irrorate da ossigeno e adrenalina. L'estetica reguetón si riproduce tra una colata e l'altra di cemento. Gli abiti minimalisti sono propri di chi si veste per necessità, di chi muove liberamente il proprio corpo danzante, di chi si toglie la pelle, in fretta, per arrivare prima al cuore del frutto.
Ema è un personaggio strabiliante, uno di quelli che non si dimenticano, con la chioma platino ed una consapevolezza del proprio potere che la rende stratega invincibile. Larrain l'ha eletta simbolo del proprio coraggio.
Il regista tocca con mano argomenti complessi che rimangono sovente rinchiusi nell'animo di chi li vive, senza speranza di uscirne, pena il dileggio sociale. L'amore tra figli e genitori dovrebbe essere saldo. Ma non sempre è così. Non lo è quando sono di mezzo i rapporti di sangue. Non lo è nemmeno quando il DNA di famiglia non c'entra. I figli non vanno d'accordo con i genitori o viceversa. Può succedere. Ma se è accettabile, o al massimo riprovevole, che i genitori si sbarazzino dei figli naturali o non vadano d'accordo con essi, è ritenuto un crimine verso l'umanità se l'adozione non si tramuta in un idillio incondizionato. Perché se l'altruismo ha spinto qualcuno a trascendere i legami biologici non può andar male. E se un cucciolo abbandonato è stato raccolto lungo la strada non può che essere grato per sempre per la famiglia che ha ricevuto in regalo, al contrario di molti altri come lui rimasti in orfanotrofio.
Che cos'è l'amore, dunque, secondo Pablo Larrain? È forse il possesso? L'insostenibile dipendenza fisica ed emotiva della parte debole verso la parte più forte? Larrain disturba e provoca con una sequenza di corpi intrecciati e spasmi di irrefrenabili palpitazioni. Confonde le idee lasciando andare la propria creatura per una strada accidentata di lacrime e gemiti. Ci racconta di una famiglia disfunzionale, allargata, annichilita dalla dipendenza, costretta in un'orgia di colori psichedelici emanati da un sole abbagliante ed insostenibile.
Larrain disorienta con un intreccio pieno di omissioni. Lascia che la storia ci prenda per mano e ci porti verso il finale provocatorio. Un appartamentino rinchiude in sé una nuova intesa amorosa in cui i protagonisti hanno accettato, volenti o nolenti, di reinventarsi, pur di girare ancora intorno al proprio sole. Un uomo diventa padre, una donna toglie il velo alla propria natura, un marito, a metà tra pulsioni omosessuali e amore per la propria moglie, accetta con imbarazzo il nuovo nucleo familiare. In questo quadretto destabilizzante i bambini mantengono attaccata una fotografia strappata in più parti in cui lo scotch è una donna che vive il desiderio di amore senza i lacci del matrimonio o le architetture mentali del sesso. Finalmente libera da ogni convenzione sociale di dedicarsi a ciò che ama sentendosi a proprio agio nella situazione di madre, moglie, compagna.
Esteticamente affascinante, con una musica debordante che ne costituisce il cuore pulsante, il nuovo lavoro di Pablo Larrain sconfina dall'archetipo filmico del regista cileno che per l'occasione reinventa le inquadrature e le luci care alla propria filmografia. Il risultato non lascia indifferenti. Per me uno dei film più innovativi della Mostra. Ma anche il più divisivo. Si ama o si odia. Difficile invece, non apprezzare l'interpretazione di Mariana del Campo, colpevolmente dimenticata, nel Risiko della spartizione della torta, dalla giuria presieduta dalla sudamericana Lucretia Martel che per l'occasione non si può dire abbia aiutato il cinema delle sue latitudini.
E poi d'un tratto crollò in loro l'ultima inibizione, il cerchio si sfasciò. Si precipitarono su quell'angelo, si avventarono su di lui, lo gettarono a terra. Ognuno voleva toccarlo, ognuno voleva una parte di lui, una piccola piuma, un'ala, una scintilla della sua fiamma meravigliosa. Gli strapparono dal corpo i vestiti, i capelli, la pelle, lo fecero a brandelli, affondarono unghie e denti nella sua carne, gli si buttarono addosso come iene.
(Il profumo, Patrick Süskind)
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