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Ema

Regia di Pablo Larrain vedi scheda film

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La recensione su Ema

di EightAndHalf
3 stelle

Nell’ultimo cinema di Pablo Larraìn è come se vigesse una regola: costruzione stucchevole delle immagini, e tante ma tante parole. Si pensi a Neruda, come anche all’ultima scena di Jackie: voice over molesti a spiegare (cosa poi?) e a dire una cosa e il suo contrario, per dare tante direzioni interpretative per non prenderne una sola. Per poi in realtà prenderla, e rendere tutte le parole i monologhi e le discussioni materiale insignificante di una scrittura insignificante. Dunque di che si parla se non di fumo negli occhi? Per quanto Neruda riuscisse a destare l’attenzione per costruzione d’ambienti e adesione stilistico-poetica – giusto per il ritmo infiammato e irruento – l’ultimo cinema di Larraìn si è autoedificato una struttura sempre uguale, che alcuni chiamano stile. Sarà un parere impopolare, ma ancora più che struttura, è patina. Ema non delude queste brutte aspettative, se possibile però le rende ancora più brutte per una eventuale opera futura del regista cileno. Pensato per raccontare la storia di una ballerina, del marito coreografo Gastòn e del figlio adottivo Polo cacciato di casa da genitori evidentemente ancora immaturi per fare i genitori perché violento – ha cercato di dare fuoco alla zia – il nuovo film di Pablo Larraìn alterna in maniera quasi schematica (pensando di dissimulare lo schema) momenti musicali di ballo, tutti rigidi impostati e gestiti con la solita imbarazzante camera su carrello rivelatrice di primi piani o di nuche tramite rotazioni sempre uguali intorno ai personaggi, e momenti dialogati, in cui la logorrea sovrasta qualsiasi tipo di costruzione drammatica. Il ritmo mellifluo che ne consegue è un nauseabondo miscuglio di estetica al neon, videoclip, pseudo-libertà sessuale e romanticismo bieco. Alla luce della libertà suddetta, i personaggi (e chi li ha scritti) si sentono in diritto di smentire qualsiasi loro umana coerenza, o umano carattere, e continuano a vagare nel campo visivo come superflue figurine senza personalità. Salvo poi credere che lo spettatore possa prendere sul serio i loro deliri su amore, sesso e famiglia. Prima svolazzi visivi che ambiscono alla libertà, e poi campi/controcampi che riportano tutto con i piedi per terra come a dover girare una scena scritta, mai pensata per uno schermo. Un dilettantismo sotterraneo a tutto l’ultimo cinema di Larraìn e che qui esplode perché forse, per la prima volta, lasciato libero di essere se stesso. E la libertà può fare brutti scherzi.

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