Regia di Pablo Larrain vedi scheda film
Un percorso molto periglioso (ma vincente) quello scelto da Larrain che ha messo in crisi i suoi abituali estimatori (succede quando si privilegiano nuove vie espressive). Questa volta non cerca empatia, ma affascina attraverso la potenza dello sguardo e la sensualità dei gesti. Film emozionante e bellissimo insomma assolutamente da vedere.
“Che cos'è l'amore dunque secondo Pablo Larrain. È forse il possesso? L'insostenibile dipendenza fisica ed emotiva della parte debole verso la parte più forte? Larrain disturba e provoca con una sequenza di corpi intrecciati e spasmi di irrefrenabili palpitazioni. Confonde le idee lasciando andare la propria creatura per una strada accidentata di lacrime e gemiti. Ci racconta di una famiglia disfunzionale, allargata, annichilita dalla dipendenza, costretta in un'orgia di colori psichedelici emanati da un sole abbagliante ed insostenibile.” (@obyone - //www.filmtv.it/film/169609/ema/recensioni/976398/#rfr:film-169609)
Ema è fuoco, distruzione, ferocia, egoismo, disperazione, sesso e trasgressione… una fiamma che danza nelle strade, nelle piazze, negli autobus o in uno studio neutro di registrazione… è un semaforo rosso nel cuore della notte, una forza della natura che spacca tutto ciò che in qualche modo le si contrappone: la sua arte, la vita delle persone che incontra… persino quella del bambino che ha adottato e poi rifiutato… Ema è una linfa vitale come il sole, il centro gravitazionale intorno al quale ruotano il compagno, i colleghi di scuola, le compagne di danza, le sue amiche e persino ogni altra figura che si affaccia sulla scena o entra a far parte più concreta del racconto come Anibal e Raquel….
Ema è anche amore (lo rivendica più volte attraverso i suoi gesti e le sue parole) ed è proprio in suo nome che rifiuta un mondo dove persino l’affettività è determinata (e controllata) dalle usanze e dalle tradizioni.
Ema è davvero molte cose, ma è soprattutto una donna libera. Libera dai vincoli e dalle convenzioni. Libera di essere sé stessa fuori da ogni regola e limitazione....
…
E’ dunque attraverso il ritratto elettrizzante di questa straordinaria figura femminile, infaticabile tessitrice del proprio destino, spiazzante e divisiva come il film di cui è indiscussa protagonista, che Larrain ha di fatto ribaltato le e coordinate del suo cinema politico cupo ed essenziale, volto a rileggere il passato e a indagare l’abisso che sta dentro l’essere umano e le motivazioni che generano tante ripugnanti distorsioni come quelle che hanno lacerato il suo paese. Ha realizzato questo radicale cambiamento (di forma, di stile) mettendo in atto una vera e propria rivoluzione anche temporale che è quella di averci trasportato di colpo e inaspettatamente (quasi all’improvviso direi) dentro la scivolosa e contradditoria contemporaneità di un presente molto problematico. Ha utilizzato soprattutto (con temerarietà e convinzione) la forza dirompente di uno sguardo davvero inusuale che scruta questa volta non solo la potenzialità del femminile., ma ancora e sempre anche il potere, poiché a suo modo pure Ema è cinema politico (secondo Chiara Borroni su Cineforum, addirittura il più politico e radicale fra quelli transitati da Venezia 76)… Ha fatto insomma quello che solo i grandi autori sanno fare: cambiare registro per dare nuovi sbocchi alla propria arte.
Larrain non aveva certo bisogno di conferme: poteva tranquillamente continuare a fare cinema seguendo schemi già ampiamente collaudati, ma al momento in cui ha avvertito il bisogno di respirare aria nuova, non ha indugiato un attimo ed ha deciso di correre il rischio con questo repentino cambio di registro ma senza per questo rinunciare alla raffinata intelligenza del suo cinema che rimane intatta: ha solo preso nuovamente in mano l’intero suo lavoro fatto in precedenza non per rinnegarlo, ma per spingerlo oltre rimettendolo (e rimettendosi) di nuovo in discussione.
Un film spiazzante e fortemente divisivo dunque quello che è venuto fuori? Sì certo, Ema è anche questo (e l’ho già detto prima) ma è soprattutto un'opera ardita e innovativa con cui il regista (proprio per questo suo posizionamentosul presente) prova ad osservare il mondo da una angolazione virata al femminile e il risultato che ottiene è davvero sorprendente.
Un percorso coraggioso ma irto di insidie (a mio avviso tutte pienamente superate) quello che ha scelto, che lo ha visto però uscire vincente su tutti i fronti (secondo De Grandis su Segnocinema, Ema è stato il film più sorprendente e innovativo dell’ultima Mostra del Cinema di Venezia) ma che ha messo in crisi buona parte dei suoi abituali estimatori (succede spesso quando si privilegiano nuove vie espressive)[1] rimasti disorientati davanti a questa sua ultima spiazzante opera: l’ultima fatica di un autore davvero sopraffino che questa volta non cerca empatia, ma riesce comunque ad affascinare lo spettatore (parlo di me naturalmente, non posso certo generalizzare) attraverso la potenza dello sguardo e la sensualità dei gesti. Ne è uscito fuori un film molto complesso (addirittura “incendiario” come lo ha definito Alberto Barbera) che io ho trovato bellissimo non solo da vedere ma anche da ascoltare e (perché no?) anche da ammirare.
Seducente, perversa e indimenticabile (questi sono gli aggettivi con i quali mi piace definirla), Ema è la storia di una giovane ballerina di reggaeton che lavora in una compagnia di danza sperimentale diretta dal suo compagno (Gaston) di ben 12 anni più vecchio di lei.
Non ci viene detto quasi nulla del “prima”, soprattutto in relazione a un rapporto di coppia che, per quel che ne sappiamo, poteva anche funzionare molto bene, ma questo nell’economia del film è ininfluente poiché al regista interessa soprattutto il “dopo” e allora non solo ci si arrende volentieri a questa sua esigenza anche come spettatori (parlo sempre per me) ma si finisce pure per accettare, senza porsi troppe inutili domande, di partire semplicemente dal momento da lui scelto per collegarsi in diretta con i suoi personaggi e la loro vita, che è quello in cui si sta consumando il fallimento (traumatico) di un’adozione finita male: nonostante il forte senso di maternità espresso dalla donna che il compagno non può soddisfare, Polo, il bambino problematico di una decina di anni che la coppia aveva deciso di far entrare nella propria famiglia e amato come fosse stato da loro stessi generato, dopo l’ennesimo gesto di ribellione violenta del ragazzo (ha bruciato i capelli della sorella di Ema, deturpandone il volto) è stato di nuovo abbandonato alla sua sorte e riportato all’orfanatrofio, rinunciando così a un impegno ritenuto troppo oneroso. Una decisione ardua da prendere ma diventata irrimandabile che ha mandato letteralmente in frantumi la solidità della coppia e la sua stabilità emotiva, e questo per i sensi di colpa e le recriminazioni che il gesto ha prodotto fra reciproche accuse e drammatici interrogativi. Tutto questo però collocato dentro a uno scenario insolito e a un turbinio di eventi vorticosi intrisi di danza, sesso e vandalismo. E poi… e poi… E poi mi fermo qui perché mi rendo conto che è difficilissimo persino raccontare una trama che è così labile che quasi non esiste e si sviluppa solo per brandelli ricostruiti (ma solo in parte) attraverso racconti e confessioni.
Per farlo ed essere incisivi, ci sarebbe dunque bisogno di gettare alle ortiche la logica implacabile dell’oggettività evitando soprattutto di cercare di ricostruire il puzzle utilizzando le solite parole di circostanza per inventarsi invece una nuova forma di scrittura creativa che utilizzi (e valorizzi) solo l’empatia. Ci sarebbe insomma bisogno di un adeguamento anche lessicale analogo e corrispondente alla rivoluzione operata dal regista nel rivestire di immagini, di musica e di colori questa sua pellicola così inusuale. Guardiamola allora pensando meno alla storia e più alle emozioni che trasmette (esattamente come ho fatto io) perché se non riusciamo a produrre questo indispensabile adattamento mentale (non semplicissimo) sarà difficile accettare anche il positivo risultato che produce (o che almeno ha prodotto in me) poichè Pablo Larrain racconta questa parabola utilizzando termini e modalità che sono solamente filmiche, nel senso che appartengono al linguaggio delle immagini (le inquadrature a specchio, il montaggio alternato che si sviluppa progressivamente su più piani) ai quali ha aggiunto poi il fondamentale contributo fornito dell’avvolgente score musicale (vero catalizzatore di tutti i sommovimenti che muovono le azioni) capace di creare con le sue sonorità, continui cortocircuiti nella narrazione: due elementi che gli hanno consentito di dare forma (rendendoli visibili) ai mutamenti interiori della protagonista senza bisogno di parole.
Pur narrativamente un po’ sconnesso (come ho cercato di spiegare - sicuramente male - nel precedente paragrafo) il film, se proprio si vuol provare a dargli una definizione (quasi) certa, ci porta a dire che - in sintesi - è una specie di inafferrabile (anche per gli stessi personaggi) triangolo amoroso piuttosto complicato che si sviluppa e prende forma attraverso immagini brucianti che mostrano un mondo in continua agitazione e movimento simile a quello della vita di questa ballerina di Valparaiso che esibisce spudoratamente proprio attraverso il corpo, la danza e il desiderio la propria libertà (anche di scelta) in un susseguirsi frenetico di suoni martellanti e sincopati che invadono ogni azione, conferiscono forza e pathos ad ogni decisione (merito indiscusso della bellissima colonna sonora di Nicolas Jaar a cui ho accennato prima, vera anima pulsante dalla storia). Se è dunque la musica a dare il ritmo al montaggio delle azioni e a trasformare il tutto in una coreografia danzante, è poi però l’istinto a guidare i personaggi nei loro mutamenti anche esistenziali.
La bella fotografa (di Sergio Armstrong) fa poi il resto con i suoi colori saturi e sgargianti che riempiono lo schermo di azzardati cromatismi che danno forza e senso alle emozioni espresse dalle varie figure che popolano la pellicola in una specie di continuo videoclip introspettivo e sovraesposto. Si sviluppa così (e prende forma proprio attraverso il ballo (che non sempre qui è salvifico) anche la rivalsa personale di Ema…
Ma la travolgente passionalità che trasmette finisce per creare anche forti scompensi che sfociano in una devastante crisi, quella che contrappone la donna a Gaston e alla compagnia di danza di cui fa parte. Una crisi che raggiunge il suo zenit proprio durante le prove per l’allestimento di uno spettacolo ispirato ai ritmi della tradizione e che coinvolge brutalmente anche quell’uomo ormai non più in perfetta sintonia con la sua donna (stai percorrendo una strada immaginaria di cento anno fa” gli ricorda impalcabile un’amica rimarcando la distanza tra l’approccio culturale del maschio rispetto all’implacabile realtà in movimento del femminile). Perchè nel film si parla anche di un uomo (Gaston appunto) e il disorientamento che esprimono i suoi occhi chiari diventa all’improvviso anche il nostro (sicuramente il mio): gli occhi chiari di un uomo che non sa più leggere (e capire) la realtà che lo circonda e che vomita urlando tutta la sua rabbia e il suo smarrimento (la sua disperazione direi) in un monologo viscerale feroce e paradossale (anche un po’ ridicolo se vogliamo) di chi non riesce a stare al passo non solo con la sua compagna, ma anche con la Storia e che vorrebbe invece conservare almeno un legame con la realtà espressiva del suo paese, con lo spirito originario che l’attraversa e con la dimensione folklorica che cerca di travasare nelle sue coreografie ma che sta scomparendo poco a poco per lasciare il posto non si sa ancora bene a cosa. La sterilità (anche reale) dell’uno, si riflette dunque nelle difficoltà affettive dell’altra e nel suo estremo bisogno di evasione-Ed è su questo rispecchiamento evocativo e contraddittorio al tempo stesso, che Larrain lavora alacremente evitando però sempre di mettere i due volti l’uno di fronte all’altro come da tradizione (che sarebbe la maniera più semplice per impaginare il racconto). Rifiuta infatti totalmente la modalità un po’ vetusta del montaggio formale (quella del campo e controcampo tanto per intenderci) e sviluppa il tutto con una modalità tutta speciale. La sua è (cinematograficamente parlando)una dichiarazione di intenti già palesata nei primi magnifici minuti della pellicola durante i quali ci ha fatto assistere alle sequenze parallele ed alternate di due scenari opposti: da una parte, la distruzione relazionale della coppia; dall’altra, l’esito del lavoro artistico (la danza) che vede coinvolti gli stessi due protagonisti.
Un film composito e multiforme dunque, complesso come il panorama economico/sociale in cui viviamo, con cui il regista prova a smontare uno schema di vita già molto logorato e svuotato di senso (la famiglia tradizionale, il ruolo della donna, i figli). Lo fa, mischiando il tutto in un grande calderone, quello di una storia in cui i personaggi si spingono dove il desiderio li trascina senza porre alcun limite alle proprie azioni.
Smontare per rifondare sembra volerci suggerire (o per lo meno prendere in considerazione il fatto che c’è bisogno di un’inversione di tendenza se vogliamo davvero cambiare e tornare a riconoscerci… esattamente come sta provando a fare Ema che danza e guarda la città dall’altro in cerca di nuove coordinate e nuovi stimoli da cui poter ripartire anche se questo la porta a fare i conti con le ferite e le macerie del passato. Sarà un altrettanto disperata impervia via quella che le si presenta davanti? Il film non ce lo dice anche se cerca di suggerire che, pur se azzardata e dolorosa, non dovrà essere per forza priva di prospettive. Nel film è insomma è chiaro che per Larrain la vera forza rivoluzionaria s’incarna nei corpi femminili. E allora se la risonanza di un’unione artistica non si riverbera più nell’esperienza di vita quotidiana, smontare ed annientare (anche farsi del male) resterà forse l’unico modo per rigenerarsi. Si potrà così provare a guardare altrove spudoratamente (quell’oltre a cui ho accennato prima)dopo aver preso coscienza che la famiglia, la maternità, l’amore stesso, possono anche essere vissuti così, come i nostri impulsi ci richiedono e comandano senza tener conto di nessuno e di nessun’altra cosa (e a questo punto, anche Polo potrebbe tornare a far parte della partita).
Evoluzione e cambiamento insomma e il coraggio di affrontare quello che verrà per quanto disfunzionale e paradossale possa apparire.
Resta ancora da dire della straordinaria prova degli interpreti. Il primo posto spetta di diritto a Mariana di Girolamo che con la sua debordante fisicità incarna alla perfezione (e riproduce), la figura di Ema immaginata dal regista: frenetica, instancabile, capace di superare anche il proibito, con il suo corpo flessuoso e il magnetismo del suo sguardo. Non gli è però da meno Gael Garcia Bernal che si conferma interprete di razza e qui fornisce una delle prove più convincenti dell’intera sua carriera. Funzionali anche tutti gli altri (in primis Santiago Cabrera, Paola Giannini e Cristian Suarez).
[1] Le critiche più frequenti mosse dai suoi agguerriti denigratori (che io non condivo ma che mi sembra corretto evidenziare) credo che possano essere sintetizzate come segue: “ Un film confuso, irrisolto che non sa dove andare a parare”... un’orgia continua di sesso inverecondo… “un vero e proprio passo falso che da lui non ci si sarebbe proprio aspettato” … “una noia mortale”… e ancora: “eccesso di formalismo”… “ricerca estetica fine a se stessa”… “movimenti di macchina gratuiti”… “colori sgargianti per coprire il vuoto”… “ammiccamenti disturbanti” e così via.
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