Regia di Roy Andersson vedi scheda film
Sull’infinito. Due amanti che nuotano nel cielo come in un dipinto di Chagall. Bar e solitudini incomunicabili come in un dipinto di Hopper. Spazi con prospettive estremizzate come in uno schema di Brunelleschi. È chiaro che nel suo cinema costantemente imbalsamato Roy Andersson, che torna a Venezia 76 con un titolo di cui si parlava con grande mistero da molto tempo, tenga a dare impianti pittorici ai tristi luoghi interiori dell’essere umano. Al suo solito, è l’umanità la protagonista, costretta a confrontarsi direttamente con ingombranti massimi sistemi come scienza e fede e dunque sottomessa all’inevitabile conseguente senso del grottesco. Si ride a denti stretti vicino a piccole tragedie quotidiane, delusioni amorose, incubi e decisivi momenti della Storia. A consumarsi è appunto il dramma di un’umanità intera che anela alla statuarietà del mito e talvolta invece si vede costretta ad abituarsi al mediocre e all’insoddisfacente. La tragedia di una razza umana che è consapevole di poter usare la sua energia interna ma che è ostacolata da assurde costrizioni sociali, che annullano qualsiasi spontaneità. L’interessante della regia di Roy Andersson è la sua ambiguità rispetto a questa umanità, a volte tenera a volte meritevole dell’Apocalisse. Benché l’assenza di posizione risulti spesso un po’ un alibi, l’immobilità di About Endlessness ha direttamente a che fare l’ambiguità del suo regista, che dice chiaramente ma sottotraccia che c’è dell’umanità e della freschezza nascoste dietro quelle corazze. Umanità e freschezza che possono essere colte alludendo e ammiccando, con l’invisibile di una voce fuoricampo. Ma che – se non per antitesi – sono impossibili con l’immanente, con il direttamente visibile, con il Cinema.
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