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Sulla infinitezza

Regia di Roy Andersson vedi scheda film

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La recensione su Sulla infinitezza

di Peppe Comune
8 stelle

Una coppia di amanti vola abbracciata dalle sommità del cielo. Una dolce voce femminile ci informa di ciò che vede dal mondo che sta sotto. L’umanità è varia, come i suoi sentimenti e suoi dolori, che non conoscono limiti spazio temporali. Vede una donna incapace di provare vergogna, un uomo che voleva fare una cena a sorpresa per la moglie, un altro che prova fastidio perché un suo vecchio amico delle elementari è diventato un uomo di successo, un uomo che non si fida delle banche e nasconde i suoi soldi sotto il materasso, un uomo che ha calpestato una mina ed è rimasto senza gambe. C’è chi ha smarrito la fede, chi ha perso un figlio in guerra, chi è in cerca dell’amore, chi crede che nessuno la stesse aspettando. Vede una città devastata dalla guerra, un esercito in ritirata, Hitler chiuso nel suo bunker, insieme al suo sogno di conquistare il mondo. Vede una donna che amava molto lo champagne, un’altra che aveva dei problemi con la sua scarpa, un uomo che piange perché sta per essere giustiziato a morte, un altro che uccide la moglie per salvare l’onore della famiglia. Vede un padre e un figlio camminare sotto una pioggia battente mentre vanno ad una festa di compleanno. Dal cielo infinito si vede tutto. E tutto sembra più chiaro.

 

scena

Sull'infinitezza (2019): scena

 

“About Endlessness” rappresenta l’ideale compendio sulla trilogia di Roy Andersson sul “essere un essere umano” : “Canti dal secondo piano”, “You, the Living”, “Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza”. Perché ne riprende l’essenza poetica ma accentuandone ulteriormente la struttura polittica, ovvero, la presenza di tanti segmenti narrativi affatto collegati tra di loro, se non nel fatto che tutti finiscono per confluire in un unico coro di voci che come una litania distorta si fa matrice simbolica dell’infelicità del genere umano. I volti sono sempre cadaverici, i corpi sempre immobilizzati dalla loro inettitudine al fare e i dialoghi sono sempre improntati al massimo grado di laconicità. Diversamente dagli altri film, però, si avverte più letizia, una maggiore propensione ad offrire delle vie di fuga. È il cielo sorvolato dai due amanti “alati” probabilmente, o la suadente voce off al femminile, che ci informa di quello che vede dall’alto del suo spazio infinito. Una voce che sembra volerci dire che non esistono che frammenti di vita da poter raccontare, che è solo la somma algebrica del tutto a restituirci un quadro d’insieme di disarmante tristezza. Come in un polittico, ogni storia ha in sé una vita propria e un senso compiuto, ma è solo pensandole tutte insieme che si può giungere ad una visione organica e a delle riflessioni sensate sullo stato delle cose buone per chiunque. I corpi sono fissi, si è già detto, come per rappresentare visivamente une delle forme possibili del disorientamento sociale in fieri, che è quanto di più concreto è restituibile attraverso le immagini dello smarrimento delle coordinate etiche di sempre.

Ormai il cinema di Roy Andersson ha acquisito una riconoscibilità stilistica abbastanza evidente, sia per quanto riguarda l’organizzazione della messinscena, sia per  le suggestioni speculative che intende trasmettere. La sua poetica si nutre tanto della composizione delle immagini propria della pittura, quanto delle limitazioni spazio-temporali proprie del teatro. In questo quadro poetico, la fissità dei corpi si fa cifra stilistica per come tende a collegare il cosa e il come si intende rappresentare al cinema una certa idea di mondo. Il genere umano è schiacciato dal peso delle sue debolezze che possono essere il frutto di più circostanze : di aspettative rimaste inevase, di desideri insoddisfatti, di delusioni amorose, della perdita della fede. I moventi possono essere tanti, e tutti concorrono a generare un mondo dove per la gran parte delle persone la massima forma di aspirazione sembra essere quella di rimanere sé stesse, di conservare quanto di buono sono riuscite a fare nella vita. La struttura polittica della messinscena ritorna sempre nei film di Andersson, unitamente alla ricercata matrice simbolica conferita ad ogni singola porzione narrativa, che è quanto serve per tenere uniti in un unico quadro cognitivo il passato, il presente ed il futuro. Si prendano ad esempio le sequenze dell’esercito sconfitto in ritirata e di Hitler rinchiuso nel suo bunker (sono sempre presenti i segni del nazismo) insieme ad altri gerarchi. Inseriti nella forma quadro voluta da Andersson, queste sequenze sembrano suggerirci che quei fatti vanno storicizzati collocandoli lungo una linea spazio-temporale che ci riguarda ancora e che ci riguarderà sempre, che non meno di altri fatti concorrono a rendere la vita del pianeta alquanto infelice. Siamo in Svezia, ma potremmo trovarci in qualsiasi altro posto perché non si fa riferimento a nessun luogo fisico particolare ; si esplora la nostra contemporaneità, ma con i fatti della storia che vi entrano indisturbati senza arrecare incoerenze narrative stridenti.

Eppure, il suo non è un cinema improntato al pessimismo, proteso, cioè, a descrivere in forma disincantata la “fine di un’era”. Tutt’altro, nel suo rappresentare l’alienazione dell’uomo moderno rispetto ai suoi voleri, la sua sostanziale improduttività rispetto ai suoi saperi, la sua irrimediabile limitatezza rispetto all’immensità del creato, lui chiarisce la presenza di fatti che esistono in quanto tali e che si accompagnano all’esistenza stessa del mondo. Ma è proprio nel dichiararli come oggetto del visibile questi fatti che uno può farsene beffa vestendoli a farsa e immergerli in un “grottesco” teatro dell’assurdo. Allo stesso modo in cui si può dire che solo quando ci si rende pienamente consapevoli di un fatto si può pensare di potersene emancipare. Nessuna morale, sia chiaro, Roy Andersson non sembra il tipo da produrre un ricettario sempre pronto all’uso. Lui fa solo un cinema che cerca di testimoniare, dalle sue alture vertiginose, tutto il male che c’è e tutta la felicità di cui non sappiamo più godere. Come negli altri film, l’autore svedese esamina la nostra contemporaneità svincolandosi però dai recinti concettuali del modernismo e del post-modernismo. Ma in una maniera più accentuata che altrove, in “About Endlessness” insinua un umanesimo che sembra cadere direttamente dall’alto dei cieli. Perché il cielo è infinito ed è sopra tutto e tutti. È da lì che si può suggerire al genere umano di scrollarsi di dosso il peso del mondo e riacquistare la leggerezza perduta. Quella che consente di giungere al cuore delle cose, di volare in alto e vedere tutti i nostri limiti con molta più chiarezza. Grande Roy Andersson.              

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