Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
FESTIVAL DI CANNES 2019 - CONCORSO - FILM D'APERTURA " The dead don't die", canta placido ed incredibilmente apprezzato pure dalle giovani generazioni, il cantautore alternative-country Sturgill Simpson, regalando il titolo della sua composizione all'ultima, bizzarra fatica cinematografica di Jim Jarmusch incentrata su una storia di zombie, con cui si è scelto di aprire la rassegna di Cannes nr. 72. Infatti a Centerville, Usa, "a very nice place", very quiet country, dove la noia regna sovrana tra i boschi e le poche anime che vi hanno scelto di vivere sanno tutto di tutti, a destare dalla noia della consuetudine, e provvedere un cataclismatico fenomeno naturale senza precedenti, ci pensano i morti, in fuga compulsiva e dalle tombe che li hanno ospitati per chissa quante.
Finché dal cimitero i morti si risvegliano, lasciando ai tre poco preparati e ancor meno pavidi poliziotti, il compito improbabile di fermarli. La causa si dice sia dovuta ad uno spostamento improvviso dell'inclinazione del globo terrestre che, ancor prima di determinare il sorgere di cataclismi meteorologi, riporta in vita i morti. "Kill the head" ..... Ecco finalmente la soluzione del problema, a cui arriva il poliziotto giovane, forte di una considerevole preparazione tutta teorica in materia di zombie, legata ad una certa morbosa attrazione per quei non morti a cui il cinema ha dato spazio come mai altre forme d'arte e rappresentazione fino ad ora.
Peccato che nessuno dei tre colleghi riesca a dare davvero una mano concreta alla soluzione di una vera e propria catastrofe senza via di scampo. Jarmusch si dedica in modo scanzonato, indolente e caustico, ai morti viventi, dopo aver trattato, solo anni prima, ma con più glamour e serietà, la tematica della minaccia infettiva e virale senza via di scampo da presenza di vampiri. Riuscendo peraltro questa volta, dopo sin troppi tergiversamenti e attese imbarazzate, a parlare di se stesso regista e leader di un progetto, del proprio ruolo di responsabile a livello di contenuto, sfiorando con ironia i territori del meta-cinema, e, spingendosi fino a sondare le perverse origini dei mali latenti che, più della catastrofe ambientale, ci rendono schiavi di una inerzia da mancanza di carattere.
Bella appunto la scena degli zombi con lo smartphone in mano, ossessionati a ripetere un'azione routinaria come la consultazione del proprio portatile. "Vedi quello che vedo io?, dice Murray, sornione come al solito, al suo collega Driver quando dai cieli appare addirittura un Ufo. "-C'era questo nella sceneggiatura? -No, almeno in quella che Jimmy mi ha fatto leggere." Il bello di una produzione "made in Jarmusch", non è solo il cast magnifico di attori-artisti-amici straordinari di cui il regista spesso ha modo di avvalersi: Murray, Driver, Sevigny, Swinton, Waits, Glover, Laundry Jones, e tutti gli altri.
È pure l'indolenza quasi svogliata dell'incedere che i personaggi riescono a tradurre ognuno da una propria mania, un pensiero ricorrente ed ossessivo, che rimane e si apprezza. E pure, in questi zombie che vengono annientati colpendoli in testa e facendone evaporare in fumo nero l'anelito prepotente che li ha riportati in vita, è bello notare nei rispettivi goffi incedere tentennanti, il chiodo fisso dell'uomo un tempo vivente che abitava quei corpi.
Le smanie, irresistibili anche da non-morti, proprie del mondo occidentale viziato, che li vedono, pur imbambolati e goffi, maneggiare maldestramente smarphone e palmari.
"Che mondo di merda!" Sintetizza alla fine l'unico vero incolume della storia, ovvero colui che non aveva più nulla da perdere, nella gerarchia sociale come nella sostanza dei propri averi: il barbone Ton Waits. "The dead don't die" non è certo robusto e azzeccato come quel "Solo gli amanti sopravvivono" del medesimo autore citato sopra: piuttosto più semplicemente niente più che un compitino ben fatto con qualche spunto interessante, diversi scorci ben studiati, tanta voglia di fornirci una propria variante minimal e pazzerella di una tematica che ha segnato i punti di forza (ma a volte pure i limiti) del cinema di genere.
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