Regia di Jim Jarmusch vedi scheda film
«Questa storia finisce male», ripete continuamente Adam Driver. Attraverso il suo personaggio, Jim Jarmusch sembra dirci: «Questo film è una merda, ma voi lo esalterete perché siete zombie del pensiero critico». Senza che sia necessario leggere il copione in anticipo.
The Dead Dont't Die è opera di rara bruttezza, un film mortifero, un morto che non si risveglia. Uno zombie che si trascina cercando di ripetere passi e fasti del passato.
È un (omonimo, anonimo, anodino) pezzo country brutto e fastidioso che intercetti, tuo malgrado, ovunque: il leitmotiv persecutorio di una giornata orribile. All'ennesimo ascolto non richiesto, Bill Murray sbotta e getta il cd fuori dal finestrino dell'auto. Allo stesso modo, Jarmusch vorrebbe forse che lo spettatore si svegliasse dal torpore indotto dalla nefasta visione del suo film e lo «uccidesse dalla testa». Zac. Un taglio netto.
Forse. Chissà.
Un'interpretazione troppo sofisticata, probabilmente. Lo stato delle cose, purtroppo, certifica un sentimento crescente di delusione fino a raggiungere l'estremo disagio.
Quello che vuole comunicarci l'autore è chiaro, cristallino, comprensibile, condivisibile, finanche banale: siamo tutti zombie, viviamo e ci comportiamo come zombie, facciamo e diciamo tutti le stesse cose (letteralmente: è una costante la ripetizione precisa di frasi ed espressioni pronunciate da diversi personaggi, azioni e reazioni sono le medesime, l'immaginario è la medesima confortevole dimensione, ben rappresentata dalla sonnolenta, ideale cittadina della provincia americana). Un inno contro la standardizzazione del linguaggio – reale e audiovisivo–, contro l'indifferenza e l'apatia che abitano/occupano l'essere umano sempre di più, contro l'appiattimento di gusti, mode, esercizio e manifestazione del libero pensiero, contro i pericoli della società americana e moderna in generale.
Che fosse perciò necessaria la didascalia per voce dell'altrimenti irrilevante Tom Waits – funzione: osservatore, predicatore, fuori dalla realtà quindi salvo – è sottolineatura ridondante e molesta; indica l'apatia creativa del regista.
Come meccanico-zombesca è l'esistenza dei suoi personaggi, fatta di azioni e facce e pose che si ripetono, così è il suo lavoro: un accumulo meccanico e ripetitivo di scene che anelano, seppur svagatamente, svogliatamente, il cult ma non lo lambiscono nemmeno per caso, di citazioni assortite (da Romero e Star Wars al Signore degli anelli), ritornanti e ammiccanti, di figure strane che fanno espressioni strane mentre attorno accadono stranezze e altre ne accadranno.
Lo sai, e non hai certo bisogno del copione del saperlo.
Ma. Al di là della metafora, la storia è sballata e indisponente, le spinte metacinematografiche una furba, balorda trovata, i dialoghi aridi e vacui; e i personaggi, che possiedono movimenti e pensieri e parole da ritardati conclamati, sono insopportabili: Bill Murray è inutile come un colpo di fucile sparato nel petto di un non-morto (quando, si sa, bisogna «uccidergli la testa»), Adam Driver lo prenderesti a cazzotti, Chloe Sevigny piagnona non vedi l'ora che la sbranino ferocemente, Selena Gomez è (grazioso) arredamento hipster (che poi, mah), Tilda Swinton fa Tilda Swinton con tocco di “sopranaturale” (ormai è maniera, su), Iggy Pop ha una scenetta simpatica poi sparisce (salvo superflua apparizione successiva).
Non c'è empatia alcuna però la ricerca della fighezza indie-pop è scontata e stressante, autoreferenziale: il risultato è una collezione di character poster, un filmetto fighetto che gioca col genere senza capirlo, senza le palle per saperlo/volerlo fare, che finisce per avere gli stessi difetti che denuncia. Oltretutto, bruttissimo, lunghissimo (eppur dura poco più di cento minuti), spento.
Morto.
Opera zombesca, visione zombesca, recensione zombesca.
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