Regia di Joel Coen vedi scheda film
"In via Gorochovaja, in una di quelle grandi case, la cui popolazione sarebbe stata sufficiente per tutta una città di provincia, se ne stava di mattina a letto nel suo appartamento Ilja Ilji? Oblomov.
Era questi un uomo di trentadue-trentatré anni, di media statura, di aspetto piacevole, con occhi grigio-scuri, ma nei tratti del volto privo di qualsiasi idea determinata, di qualsiasi concentrazione. Il pensiero passeggiava come un libero uccello sul suo viso, svolazzava negli occhi, si posava sulle labbra semiaperte, si nascondeva nelle rughe della fronte, poi scompariva, e allora su tutto il volto si accendeva l'uniforme colore dell'indifferenza. Dal volto l'indifferenza passava alle pose di tutto il corpo, perfino alle pieghe della veste da camera."
Un pizzico di veleno, una manciata abbondante di grottesco, mescolare tutto in salsa americana anni Novanta nostalgica dei Settanta ed ecco a voi il redivivo Oblomov, in vestaglia e ciabatte. Che qui, i Coen più ispirati dei cinema chiamano Lebowski. Non un Lebowski qualsiasi, ma "Il grande Lebowski".
Né si dimenticano, i ragazzacci, delle regole base e sempre valide di una qualsiasi rappresentazione , soprattutto teatrale: unità d'azione / di luogo e di tempo. Aristotele docet. Mettendo in scena un'opera dalla scrittura compatta (la sceneggiatura resta una delle loro armi migliori) attorno ad un intreccio centrale consequenziale e ben riconoscibile; un'ambientazione Los Angelina uniforme, tra Malibù e Pasadena e tempi calibrati: accelerazioni e decelerazioni mai brusche e sempre e comunque funzionali al contesto ed una durata corretta di 112 minuti (certi film contemporanei sono ingiustificatamente prolissi) chiusi in maniera impeccabile tra un prologo ed un epilogo. Entrambi in monologo, uno fuori campo, l'altro (a mo' di captatio benevolentiae) rivolto direttamente al pubblico.
Per raccontare che cosa, dunque? In fondo, nulla. Nel grande quadro universale. E anche nel piccolo, perché certo "Dude" Lebowski non è tipo da farsi sconvolgere da un millione di dollari o un dito mozzato. In una Los Angeles sterminata ed isterica, la vita corre come una palla da Bowling sul parquet lisciato. A volte fa strikes e scombina i birilli, altre volte finisce nella corsia laterale scomparendo nel buio della buca. Così è, se vi pare.
"Dude" (un Jeff Bridges in stato di grazia più che mai) non se la prende troppo: è disoccupato ma in qualche modo va avanti. Senza una donna, si aggira per una casa scombinata e sporca passando le sue serate con gli amici Walter (Goodman) un reduce del Vietman quel tantino irascibile (ma che rispetta lo shabbath, da buon ebreo convertito) e Donny (Buscemi) uno svagato sempre fuori dai giochi. "Panta rei" diceva Eraclito, tutto scorre. E così sarebbe stato, per il nostro anti-eroe sempre un po' su di giri (tra White Russian ed erba) se non fosse che una casuale omonimia con il miliardario invalido Lebowski, capapulta "Dude" in un girone infernale paradossale ed a tratti comico, fra debiti, magnati della pornografia, rapimenti, estorsioni, pestaggi, artisti contemporanei (vaginali e non), tornei di bowling e rapine. Che si conclude, fatalmente e circolarmente, nel ripristino dello status quo.
Un po' racconto picaresco, un po' commedia demenziale intelligente (un'ossimoro), "Il grande Lebowski" esalta alcune delle tematiche care ai Coen, come lo scombinamento dei generi "narrativi" (soprattutto il noir) e soprattutto l'irrompere del caso nello svolgimento (sia esso vitale o fittizio). Lebowski, come più tardi Ed Crane ne "L'uomo che non c'era" (e ancor prima Jerry Lundegaard in "Fargo") è un protagonista assente. A cavallo tra attore e spettatore delle propria vita. Quello che lo caratterizza, rispetto ad altri personaggi creati dai due fratelli di Minneapolis, è che in lui l'indolenza si carica di originalità e leggerezza. Con uno sguardo al mondo sempre e comunque surreale (splendide le sequenze dei sogni, tra palle da bowling e valchirie).
Azzeccatissima (forse non proprio originale ma riconoscibile e quindi godibile ai più) la colonna sonora, fra Santana e gli Eagles. Cast perfetto, dal protagonista ai comprimari trai quali non si può non citare uno splendido Turturro che come Jesus è impareggiabile. La tutina aderente rosa la porta bene come neanche Elle mcPherson-The Body negli anni migliori avrebbe potuto!
Entrato nell'immaginario (e anche nel gergo) collettivo "Il grande Lebowski" è un film praticamente perfetto nel suo genere (a tratti a-generico, ma lì stà tutto il suo essere "di genere", e la filmografia di Joel e Ethan Coen è chiarissima in tal senso). Resta, ovviamente, il gusto personale del pubblico. Per quanto mi riguarda, il suo essere così profondamente americano (lo è, in tutto e per tutto, dalla musica alle tematiche, ai dialoghi, alla recitazione) lo tiene lontano dal mio universo culturale, esattamente come il suo essere grottesco lo rende difficilmente ascrivibile al mio universo emotivo ed intellettivo.
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