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Il grande Lebowski

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Il grande Lebowski

di scapigliato
10 stelle

Il viaggio "stupefacente" di Dude Lebowski all'interno e all'esterno del suo mondo losangelino – tutta l'America è lì – è il viaggio dialettico dentro e fuori la struttura di pensiero del mondo occidentale anglosassone e delle sue forme di rappresentazione.
Se da un lato troviamo uno stonato, pigro e indolente uomo di mezza età che ama starsene in vestaglia, maglia, bermuda e sandali di plastica in stile vacanza a Finale Ligure anni '80, lasciando scorrere dietro di sé, intorno a sé, il caos, la frenesia, il subbuglio, la complessità della vita e la guerra in Iraq, dall'altro lato troviamo personaggi che rappresentano tutto questo universo sclerotico dell'America consumistica, nazionalistica e iconolatra persi nel folle tentativo di cercare se stessi nel labirinto evanescente del materialismo.
Personaggi come il Jesus Quintana di Turturro, la Maude Lebowski di Julianne Moore, il trio di nichilisti della domenica capitanato da Peter Stormare, oppure la civettuosa ninfomane interpretata da Tara Reid, il portaborse, leccapiedi e prestaculo di Seymur Hoffman fino al grande Lebowski del titolo, rappresentazione grottesca e "disabile" di un'America che non va sulle sue gambe, ma che vegeta parassita sull'idea stessa di America. Un paese solo idealmente forte e democratico, giusto e tollerante. Una nazione fondata sui più inalienabili diritti umani solo sulla carta – i 50 firmatari della costituzione che professavano libertà e uguaglianza erano tutti maschi, bianchi e i più ricchi del paese: dov'erano donne, indiani, neri, messicani e poveri lavoratori? Un paese, infine, che vuole solo apparire idolatrando la propria immagine bella, dinanica, perfetta, con ragazzoni beefcake prodotti in serie, alti, biondi, occhi azzurri e dal fisico scolpito nella perfezione della roccia a immagine di dio – ma Gesù non era piccolo, scuro e pelleossa? - con padri di famiglia eleganti, ricchi e di successo, e mogli in carriera tanto come dedite al focolare domestico, torte alle mela, beneficienza e amenità varie.
Il grande David Huddleston – il Tigre di Nati con la Camicia (1983) per intenderci – caratterista di razza tra i più apprezzati e riconoscibili del cinema americano, conferisce un "corpo" pesante, bolso, disabile, sedentario e inglobante a un personaggio che deve necessariamente brillare per il potere e la ricchezza accumulati in una vita, incapace di inorgoglirsi di altro. Lo fa però attraverso la rendita della figlia – Julianne Moore – e il cerchio della disfunzionalità della famiglia americana e dell'America come grande famiglia è fatto.
Un caso a parte sono il Walter di John Goodman – nel ruolo che vale un'intera carriera – e il Donny di Steve Buscemi, marginale, isolato, sfuggente, ma che fa da chiave di volta per l'intera filosofia del film. Senza la sua presenza/assenza non capiremmo il silenzio "assordante" di un'America che non ce la fa, che non arriva agli standard reclamizzati, che non vive l'imperialismo della propria nazione come i potenti che lo governano, ma si limita a trascinarsi lungo i muri delle strade e credere in un sogno che non si avverrà mai e che svanisce poco eroicamente per un attacco di cuore. Senza la sua morte i due protagonisti non avrebbero rivisto la loro storia all'inverso, senza riavvolgere il nastro, e noi con loro non avremmo capito che quel tumbleweed che rotola solitario a inizio film non solo lega Il grande Lebowski al western e quindi al genere americano per eccellenza, ma ci dà il calibro per capire come la leggerezza, la vaghezza e la fluttuazione – come il Jeff Bridges onirico dei suoi trip – siano gli antidoti ad un mondo che corre fin troppo e di cui non ci si sente parte.
Il bel personaggio di Goodman invece, è credo la colonna portante dell'intero testo filmico. Corpo ingombrante e carattere iperreale, è il personaggio che non ci strappa solo una risata, ma vere e proprie crisi di riso. Se il Lebowski di Bridges è il titolare del film e tutto l'impianto ideologico e autoriale dei Coen gira intorno a lui, è con il Walter di Goodman che si esaurisce la vocazione cinematografica della pellicola. Irresistibile protagonista delle scene più divertenti, John Goodman trascina l'amico Lebowski in questo suo viaggio stupefacente e gli permette, ci permette, di creare un'intero culto drugo intorno a quella che sarà una tra le più leggendarie maschere del cinema americano: il grande Jeffrey Lebowski.

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