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Il grande Lebowski

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Il grande Lebowski

di Stefano L
10 stelle

The Big Lebowski (1998) - IMDb

 

Ho visto "Il Grande Lebowski" per la prima volta una decina di anni fa, quando lo misero in onda su raidue un sabato notte. Non avevo idea di cosa si trattasse, e non conoscevo ancora bene i Coen. Fu amore a prima vista. L'inizio non mi sembrò niente di particolare. Poi arrivano questi due mandanti che invadono l'alloggio del protagonista e danneggiano il tappeto di "Drugo" (Jeff Bridges); si tratta del solito scambio di persona, quindi quest'ultimo decide di farsi risarcire dal miliardario direttamente interessato, il Signor Lebowski appunto. Peccato però che Lebowski, nonostante sembri un modello per la comunità, sia poco disposto ad ascoltare le lamentele dello scapestrato individuo; da lì mi resi conto che si trattava di una commedia assolutamente fuori dal comune. Durante la loro "affannata" conversazione, piena di espressioni colorite e ulteriori fraintendimenti, la vicenda prende linfa vitale, e si estende in una sfilza di garbugli e colpi di scena, i quali vedono il mitico Bridges coinvolto in una serie di finti rapimenti ed intrallazzi con la malavita che lo porteranno a vivere un’avventura pazzoide e bizzarra. Mentre tutte queste stravaganze senza senso vanno avanti Drugo troverà come "spalla" il dissennato amico Walter (John Goodman), il quale non farà altro che complicare la masnada: dal litigio al bowling in cui inciterà un giocatore a non segnarsi il punto per evitare di "entrare in una valle di lacrime", fino all'"interrogatorio" con un quindicenne sospettato del furto di un auto (pezzo che mi ha fatto letteralmente sbellicare dalle risate, e di cui consiglio la visione nei momenti mesti per tirarsi su il morale), quest'omaccione burbanzoso non fa che combinare un guaio dopo l'altro... E nonostante queste “sagome” rimangano fedeli alla loro natura, il contrasto rende la loro interazione dannatamente esilarante. "The Big Lebowski" ha una delle sceneggiature più acute che siano mai state realizzate in una produzione (low-budget) indipendente, specialmente nel mettere in luce l'ambiguità delle due facciate del Nord America, in questo caso segnato dalla Guerra del Vietnam e figlio della decade dei sessanta, che i personaggi dell'opera dei Fratelli Coen non sembrano proprio riuscire a dimenticare (le musiche sono un chiaro omaggio a quel periodo). Favoloso Bridges (che in fondo sembra un barbone, con i suoi lunghi capelli leonini, il pizzetto arruffato, i bermuda, gli infradito e gli accappatoi), l’esatto opposto della “nemesi”, il “vero” Big Lebowski (David Huddleston, che inveisce, strilla e muggisce con un sublime effetto farsesco), un magnate che impersona il sogno capitalista, e che tranne le gambe, perse in Corea, ha tutto: soldi, potere, l’influenza su una fondazione filantropica e Bunny, una moglie trofeo interpretata da Tara Reid. L'intera impresa degli sventurati può essere vista come un lungo esercizio del "parlare molto e alla fine non dire nulla", una sorta di inestimabile divagazione di una narrazione le cui figure sulle righe non smettono di sollazzare. Bridges è il ramingo, debosciato e casualmente eroico “The Dude” e ha una disinvoltura incredibile nel magnifico tempismo comico. John Goodman appare altrettanto impagabile come uno sbolinato veterano (finto ebreo) pieno di rabbia Walter Sobchak; lo stereotipo dell’occidentale grossolano. Allo stesso modo Julianne Moore genera una performance che è eccentrica e spassosa nelle vesti di una femminista sui generis. Si aggiungono poi uno Steve Buscemi “martire” costantemente in idiosincrasia nelle accidentalità, Philip Seymour Hoffman, un buffo servitore senza spina dorsale, fino alle maschere sinistre e misteriose (e non meno divertenti) di Sam Elliott e John Turturro. Da citare, concludendo, la fotografia calda e colorata di Roger Deakins, che rende surreale il paesaggio della megalopoli californiana. I Coen sono stati in grado di creare non solo un’icona degli anni novanta incarnata da Bridges ma anche di elargire uno spaccato ruspante, verace, satirico su una società neoconservatrice priva di morale e fossilizzata nel feticismo per le merci, l’avidità sfrenata e l’inettitudine nello schiodarsi dalle abitudini umane.

 

 

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