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Il grande Lebowski

Regia di Joel Coen vedi scheda film

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La recensione su Il grande Lebowski

di OGM
8 stelle

Le storie inventate dai fratelli Coen sono complesse trame costituite di eventi marginali, di improbabili equivoci, di situazioni incongruenti, di ruoli sbagliati. I protagonisti sono gli esclusi dal centro del mondo, del quale pure avvertono vagamente la presenza da qualche parte, in mezzo al disordinato vortice di forze maggiori che impietosamente investe le loro misere vite. La verità, per loro, è il mistero elitario da cui sono irrimediabilmente estromessi, e con il quale, però, talvolta si divertono a giocherellare, forti di un’arguta forma di rassegnazione oppure, al contrario, di una patetica illusione di eroismo. A Jeffrey Lebowski (per gli amici Drugo), il destino propone un insidioso trastullo con il miraggio della ricchezza: una pericolosa sfida che lo traghetta in un incubo surreale costellato di favolosi sogni, in cui la sua corporeità possente si trasforma in una grandiosa leggerezza, ammantata di una favolosa aura di maestà. Drugo, mentre subisce le angherie di nemici/amici potenti, delinquenti o semplicemente pasticcioni, si abbandona alle fantasticherie, che lo sollevano dalla realtà per consegnarlo ad un regno immaginario di cui egli è il sovrano assoluto. È in quel beato oblio (indotto, solitamente, in maniera traumatica) che Jeffrey ritrova la profonda natura del suo io, lasciandosi cullare da quella innata pace interiore che – se nessuno fosse venuto a sobillarlo – lo avrebbe reso infinitamente felice, libero da affanni e da traguardi da raggiungere, disposto persino a tenersi in casa, senza reagire, un tappeto sporcato per ripicca. La sua filosofia è semplice, ed è fatta di nonviolenza nei confronti dei casi della vita, di accettazione di tutto, al di fuori degli eccessi e dell’aggressività derivante dall’avidità e dal fanatismo. Infantile e lineare è anche il corso delle sue fantasie, che si rifanno alle ingenue coreografie dei voli supereroici e dei balletti del varietà, e che contrastano nettamente con le contorte invenzioni criminali degli altri personaggi. Si può essere istintivamente inclini alla seraficità, pur nella sventura, ma mancare della determinazione necessaria a resistere alle sollecitazioni di chi è più forte, o anche solo più furbo: questa è la condizione di Jeffrey, paragonabile ad una boa male ancorata in un mare in burrasca. L’atto che più gli piace è lasciar perdere e andare via, però gli impicci lo inseguono ovunque, gli vengono a bussare alla porta, gli giungono dal cercapersone che è costretto a portarsi addosso, emergono persino dal sedile della sua auto sottoforma di un foglio stracciato. I fastidi, per lui, sono pesanti e reali, ma, fuori dalla sua nicchia di sfortuna, tutto si dissolve come una colossale montatura, in cui lui è servito da strumento usa e getta. Il grande Lebowski  è la figura-tipo del cinema di Ethan e Joel Coen: è l’attore factotum che contribuisce all’azione senza mai essere inquadrato, è l’operatore fuori campo che non viene menzionato nei titoli di coda, perché il suo travaglio è un problema esclusivamente suo, indegno di partecipare alla nobile sostanza del dramma messo in scena.    

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