Regia di Ari Aster vedi scheda film
“Sani e pazzi potrebbero scambiarsi i ruoli… se un giorno i pazzi fossero la maggioranza, lei si ritroverebbe dentro una cella imbottita”. Il seme della follia, John Carpenter, 1994
Credo che i puristi del cinema horror si debbano rassegnare. L’evoluzione del genere che ha attraversato diverse fasi temporali sfidando l’accresciuta sensibilità e sopportabilità dello spettatore verso situazioni sempre più cruente e insostenibili, si è perduta nel tempo a favore di quell' elemento che contraddistingue la modernità applicata in tutti i campi delle arti, cioè con quello che chiamiamo contaminazione. Se la ricerca continua di trovare nuove storie in grado di solleticare l’inconscio più oscuro e primordiale non regge la capacità di tenere in uno stato di forte tensione emotiva per lunghe sequenze chi guarda, ecco che l’autore si appiglia al jumpscare, all' espediente facilone per fare sobbalzare dalla poltroncina ma che fa anche rientrare in un ambito più rassicurante quello stato emotivo apparentemente in bilico. Così il genere diventa preda dello stesso meccanismo, abbondano i cliché ripetitivi, i simbolismi ricorrenti diventano prevedibili, l’attesa spasmodica di uno scossone più forte si trasforma in un copione noiosamente fastidioso e si sconfina nel già visto. La sensazione di paura diventa sempre più sfuocata e difficile da ottenere. Ciò nonostante il pubblico purista rivendica l’identità del genere perduto e contesta le definizioni di mercato quando un horror “contaminato” o secondo loro depotenziato, viene elevato a nuovo capofila del genere per consolidarne il successo almeno per le casse del cinema. Da It Follow a The Witch da The Visit a Babadook, fino ai più recenti Noi e Hereditary, tutti accomunati dalla divisione di platee e critica, tra entusiasti e delusi.
Proprio l’autore di Hereditary, il giovane americano emergente Ari Aster ci riprova un anno dopo con il più classico esempio di prodotto contaminato, più thriller psicologico che un horror vero e proprio, Midsommar il villaggio dei dannati. Questo lavoro non verrà incensato come horror dell’anno ma un originale tensione motrice horror fa da atmosfera trainante ad una storia non priva di spunti interessanti. Ari Aster seguendo la linea tracciata con il precedente film si muove sul terreno del senso di colpa e all' attacco dell'istituzione familiare, generando uno stato perenne di angoscia e di incubo che grava dentro ogni inquadratura. Anziché prediligere l’oscurità il regista opta per una rappresentazione solare, aperta, come per sconfessare quelle qualità proprie del genere che ne caratterizzano l’ambientazione. Degli studenti di antropologia americani partecipano ad un antico rituale di una comunità svedese che si ripete ogni novant’anni. Dani, la ragazza di uno di loro sta elaborando il lutto per la perdita che ha visto il coinvolgimento di tutti i suoi familiari. Il film chiama in causa un punto fondamentale del dibattito attuale, l’accoglienza della diversità (rappresentata dal gruppo dei giovani studenti) in una comunità fortemente caratterizzata. Ritualità, misticismo e tradizioni si insinuano nella visione più intima dei giovani che a differenza del film idealmente precursore di Midsommar, cioè The Wicker Man(1973) vede un apertura al confronto e alla conoscenza da parte dei giovani molto diversa dall' atteggiamento integralista e sospettoso del poliziotto che indagava sui misteri degli abitanti di The Wicker Man. Entrambi i film però denunciano lo stesso bisogno, cioè del ricongiungimento con l’estraneo per perpetrare convinzioni e ataviche suggestioni per il funzionamento della collettività.
. La differenza tra i soggetti portatori del bene e quelli del male si fa sempre più ambigua ruotando sulla figura centrale di Dani, che è la chiave di lettura film. Il regista crea una possibilità risolutrice inattesa che poi è quello che si manifesta come spunto di riflessione finale. Qualche passaggio un poco prolisso, l’inserimento ininfluente di qualche personaggio e soprattutto lo svelamento precoce della natura del rapporto sentimentale tra Dani e lo stralunato fidanzato, tolgono in parte la forza e l’efficacia al finale suggestivo ed è un vero peccato. Il nucleo emotivo centrale cioè la ricostruzione di una intimità famigliare non viene troppo condizionata da una contraddizione marcata dagli eventi, ma sembra solo determinata da una rivelazione inconscia che riguarda la ragazza. Questo particolare abbassa la qualità del film che invece denota una buona ricerca stilistica e una altrettanto fertile immaginazione. Per conto mio è un passo in avanti rispetto al più classico Hereditary ma che rimarca una maggiore distanza dagli stereotipi del genere. Una dilatazione che non farà calare l’attenzione e la suspense per il racconto, Ari Aster combina solarità luce e armonia con il percorso interiore per non ritornare in quel mondo di tenebra, oscuro e doloroso che connota i primi venti minuti emozionanti del film in cui si compie la tragedia familiare, tutto circoscritto in un ambito linguistico moderno e frenetico che ingannevolmente farà percepire un approccio mainstream allo spettatore. La sottrazione del senso di sicurezza visiva e contenutiva invece trasporta chi guarda in una dimensione molto distante dal solito prodotto ben confezionato e va a tutto merito di scelte registiche azzeccate.
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