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Midsommar - Il villaggio dei dannati

Regia di Ari Aster vedi scheda film

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La recensione su Midsommar - Il villaggio dei dannati

di maldoror
4 stelle

Ari Aster è un regista senza stile, talento, originalità, immaginazione, senza un'idea registica degna di questo nome; un manipolatore che scambia per pathos la semplice dilatazione dei tempi narrativi.

Ed ecco che, finalmente, l'"attesissima" opera seconda di Ari Aster, l'inspiegabilmente sopravvalutato regista statunitense, esce nelle sale, confermando in pieno i dubbi e le perplessità già sollevati dal precedente "Hereditary".

Aster si conferma regista privo di talento, stile, originalità e immaginazione: i suoi tentativi di scimmiottare Polanski e Kubrick (inquadrature ostentatamente gelide e geometriche, movimenti di macchina lenti e solenni, sguardo da osservatore distaccato, crescendo orrorifico suggerito in maniera quasi subliminale - almeno nelle intenzioni - ) si risolvono in una narrazione monocorde "ravvivata" da inutili complicazioni di sceneggiatura, con scene lunghissime che girano a vuoto e che dovrebbero servire a suggerire il progressivo avvicinarsi dell' orrore, e da tempi narrativi inutilmente dilatati per creare pathos, tutti espedienti usati per camuffare un palese vuoto di idee. Inoltre, i "buoni" sono talmente anonimi da non riuscire a spingerci a tifare per loro, e i cattivi troppo poco inquietanti per spingerci a tifare contro di loro.

 

E tanto per mantenere viva l'attenzione dello spettatore (ma anche per ricordarci che si tratta di un horror), ecco l'improvviso irrompere di facce spappolate o strappate e usate come maschere.

 

A tutto ciò si aggiunge una concezione del cinema a dir poco obsoleta: il prologo funzionale ad esplicitare la situazione psicologica di partenza (i due piccioncini che non si decidono a lasciarsi, con tutto il corredo psicopatologico fatto di traumi, fragilità, attacchi di panico) che farà poi da sfondo all'intera vicenda, nel tentativo di "nobilitare" e dare spessore al genere con la metafora, col persistere, sullo sfondo, della chiave di lettura psicologica.

 

Altra carta vincente di Aster, già fin troppo elogiata: la "cura maniacale" per costumi, fotografia, dettagli tecnici, scenografie, anche qui per celare l'assenza di un'idea registica che sia degna di questo nome: il villaggio di Horga dev'esserci mostrato come un Paradiso? Bene, allora vai con la fotografia sovresposta e con le tinte pastello, bianche, verdi e blu; il Paradiso deve rivelarsi poi un Inferno? Benissimo, allora sovraesponiamo la fotografia in maniera innaturale, così da far capire che quel Paradiso non è un vero Paradiso, ma un Paradiso fittizio.

 

Per quanto riguarda infine i "contenuti", le "cose da dire", che secondo qualcuno sarebbero già sufficienti a dare un' impronta autoriale ad Aster, queste si riducono ad un tentativo di analisi della coppia di oggi, talmente timido e insignificante che, in confronto, Gabriele Muccino acquista lo spessore di un Michelangelo Antonioni.

 

Unico aspetto un po' interessante e inquietante, già presente nel precedente Hereditary, l'idea (questa sì autenticamente polanskiana) del superamento della resistenza nei confronti delle forze oscure per approdare ad una gioia derivante dall'inversione dei valori morali.

 

VOTO: 5 1/2

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