Regia di Ari Aster vedi scheda film
Paese che vai, usanza che trovi. Il più delle volte, parliamo di celebrazioni culminanti con pantagrueliche abbuffate di cibo e/o ettolitri di bevande alcoliche, ma al cospetto di comunità chiuse, che perpetrano consuetudini di vecchia data, è possibile assistere a manifestazioni insospettabili, letteralmente estranee alla concezione del tempo.
Tanto più quando ci spostiamo in una realtà sconosciuta, è auspicabile prendere le dovute accortezze, non rompere le uova nel paniere, evitare di farla fuori dal vaso (qui, nel senso letterale) e tenere gli occhi aperti.
Nei casi estremi, come accade in Midsommar – Il villaggio dei dannati, non c’è altra opzione che farsi risucchiare in un vortice ammaliante e allucinogeno, all’interno del quale anche la più elementare forma di libero arbitrio non è contemplata.
Reduce da un lutto multiplo, Dani (Florence Pugh) decide di unirsi a Christian (Jack Reynor), il suo ragazzo, e gli amici Mark (Will Poulter), Josh (William Jackson Harper) e Pelle (Vilhelm Blomgran), nel viaggio organizzato per visitare una comunità della sperduta campagna svedese, con l’intenzione di presenziare alla loro tradizionale festa di mezza estate.
Fin dal loro arrivo sul posto, assisteranno a eventi imprevedibili, che diventeranno sempre più violenti e insidiosi, al punto da renderli protagonisti principali a loro insaputa.
Con Midsommar – Il villaggio dei dannati, Ari Aster reitera, amplifica e strema il modello che gli aveva portato svariati attestati di stima con il precedente Hereditary – Le radici del male.
Il regista, classe ’86 di New York, lancia il guanto di sfida al pubblico, allestendo un dispositivo a scatola chiusa, senza piani B e sprovvisto di alcun tipo di paracadute da affidare all’interlocutore per consentirgli di uscirne illeso qualora manifestasse delle reticenze.
Pur senza affidare un peso effettivo alle coordinate di partenza, come l’elaborazione del lutto e una relazione sentimentale, ogni ingrediente è controllato fino alle ramificazioni periferiche, con una certosina supervisione estetica, congiunzioni audaci e una coniugazione incantatrice tra immagini e suoni, partendo da un’ouverture nella notte buia e tempestosa per poi sfociare - e insediarsi stabilmente - alla luce del sole, talvolta anche abbacinante.
Analogamente, i giovani e validi interpreti protagonisti – Florence Pugh (Lady MacBeth), Jack Reynor (Cosa ha fatto Richard, Free fire) e Will Poulter (Detroit) – sono dei burattini da manovrare a piacimento, in un processo che assegna compiti inderogabili e depotenzia l’istinto fino a svilirlo.
Contemporaneamente, quest’infuso ingloba una predominante propensione per l’eccesso, dilatando i tempi a dismisura nel passaggio dalla pacificazione dei sensi all’incubo raggelante, senza pudore quando irrompe il rischio del ridicolo e volutamente privo di un limbo conciliatorio da offrire in pasto allo spettatore.
In fin dei conti, Midsommar – Il villaggio dei dannati è un film stordente, un horror sui generis che rifiuta categoricamente di finire impantanato in una casella predefinita, levando riferimenti di comodo (anche lasciando fuori campo potenziali scene macabre), traboccante di sollecitazioni, inserite in una lunga danza evocativa che raffigura un personale cerchio della vita, scansando scientemente qualsiasi riguardo.
Sfrontato e contestabile, ipnotico e debordante.
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