Regia di Ari Aster vedi scheda film
Spesso faccio fatica a comprendere l’incapacità di trovare del buono in pseudo horror acclamati a gran voce. Poi arrivano pellicole come questa e mi riappacifico appieno con la mia inadeguatezza.
Spesso faccio fatica a comprendere l’incapacità di trovare del buono in pseudo horror acclamati a gran voce. Poi arrivano pellicole come questa e mi riappacifico appieno con la mia inadeguatezza.
Midsommar è uno di quei film che fanno a pezzi non solo il cinema e i malcapitati alla visione, ma tutti gli stereotipi utilizzati maldestramente in tali occasioni: studenti americani idioti dediti allo sballo e da tormenti familiari, in gita presso una setta alternativa sciamanica di altri balordi tutti completamente fuori di testa.
Ma anche noi, che magari andiamo al cinema rimanendo perplessi di fronte ai mille messaggi subliminali spacciati per delicati inserti da cogliere senza pregiudizi, non siamo certo da meno.
Non riusciamo a presagire la sòla. Idioti pure noi.
Una sola parola a favore di Aster incentiva la sua povertà narrativa, questa sciatteria cinematografica, l’insistito ricorso al campo geometrico, ai giochi di camera, le contorsioni visive a giustificare quelle mentali, l’orso in bella mostra a giustificare la narrazione checoviana, le movenze dei balletti ai quali forse quell’altro fenomeno di Lanthimos avrebbe potuto suggerire uno stile meno bolso (si auspicano future collaborazioni!), gli specchi riflettenti a sottolineare l’assenza di notte svedese; la carenza di messa in scena (tranne qualche pregevole graffito), la goffaggine dei preamboli, delle sparizioni, delle morti, il festival di mezza estate della decerebrazione collettiva sopportata non solo da adepti ebeti ma anche da presunte menti “fresche”.
“Ci sballiamo adesso o tra un po’?”, equivale giustamente al nostro “spritz ora o prima di cena?” e ti serve il piano assurdo che dovremmo sorbirci praticamente fino alla fine, ma non si può pretendere che ci si cali mani, piedi, anima e cervello in una comunità di balordi e rincoglioniti perfetti dove mancano solo folletti e gnomi.
Questo dieci piccoli indiani dei poverissimi (ci perdoni Agata se abbiamo osato..) marcia in sospensione dell’incredulità fin dalle prime battute, (l’ordinario The village diventa Cinema Enorme a confronto), ma per questa ciofeca si scomodano tutta una serie di elevati contenuti che riportano ad un miserabile e comunissimo plot (te sei scopato la mejo del villaggio e mo’ te la faccio paga’ de brutto).. l’élite critica invece offre credito immenso a questi “esperimenti” fino a tuffarsi olimpicamente (frequenti i richiami ai tedofori anche) nel ridicolo, tipo vittime sacrificali dalla rupe.
Vogliamo tutti credere, infine, che il livello di beoti che anima questa congrega di fanatici uscita da un documentario vichingo, non possa certo prevalere sulla meglio gioventù americana abituata a ben altre efferatezze, vorremmo credere infine alla ricerca antropologica che pesca nel disturbante del folk horror calandoci in psicologie collettive degne di studi approfonditi (ma forse basta rimpinzarsi di droghe, stregonerie, incantesimi preistorici e qualche pelo pubico (chi non ne ha mai trovato almeno uno - riconoscendolo al volo - nei cheese burger Mac?)
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