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La paura mangia l'anima

Regia di Rainer Werner Fassbinder vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su La paura mangia l'anima

di precint13
10 stelle

La paura mangia l'anima.

La semplicità è complessa, terreno fertile di scarti visivi e rime interne. Ne è un esempio concretissimo - nella sua lucidità quasi crudele, inesorabile ma di altissimo rigore estetico e formale, di un'intensità spiazzante e struggente - questo film (1974) di Rainer Werner Fassbinder, ispirato alla lontana a Secondo amore di Douglas Sirk.

(SPOILER)
Siamo a Monaco di Baviera, dove un Gastarbeiter (lett."lavoratore ospite"), Alì, immigrato marocchino quasi quarantenne e operaio in un'officina meccanica, conosce Emmi, una lavavetri sulla sessantina, vedova con tre figli adulti e maritati. I due si amano e si sposano, ma la loro relazione sconcerta tutti coloro che gli stanno intorno: i figli della donna, i vicini di casa, le colleghe di lavoro di Emmi, persino l'esercente di un piccolo emporio alimentare dove la donna era solita servirsi da vent'anni. La situazione per Emmi è oramai intollerabile. In un caffè all'aperto - in cui la coppia viene letteralmente isolata da tutti, avventori e camerieri che li osservano con sdegno e disapprovazione in piedi davanti alla porta del locale - la donna si confessa al marito."[...]da una parte sono tanto felice e dall'altra non ce la faccio a sopportare tutto questo. Tutto questo rancore da parte della gente, di tutti. Tutti. Dio mio, quanto vorrei che fossimo soli al mondo, senza nessuno intorno. Io continuo a fare finta che tutto questo non mi tocca per niente. E invece mi tocca, sai, eccome! Tutto questo mi ammazza! Nessuno che ci guardi più in faccia, tutti hanno quel ghigno schifoso. Sono un branco di maiali. Sono tutti un branco di maiali! Guardate, brutti maiali schifosi, questo è mio marito! Mio marito!" Quello che - se trascritto - appare quasi come uno sfogo programmatico, da melodramma, è invece, per virtù di messa in scena, uno dei momenti più potenti e significativi del film. Separati da tutti in un deserto di tavolini gialli, incorniciati dalle chiome degli alberi, Alì ed Emmi emergono in tutta la propria condizione di drop-out, di emarginati, di outsider, quasi soverchiati da quell'essere-fuori che diventa condizione esistenziale. Il melodramma si stempera nella crudeltà, il montaggio diventa più serrato: la logica dell'alternanza di campi e piani aiuta Fassbinder ad inscenare un teatrino di marionette in cui la mobilità della macchina da presa contrappunta concertisticamente il dinamismo dei corpi di Alì ed Emmi e l'immobilità ieratica e giudicante - il coro della tragedia greca - degli astanti, in piedi dietro di loro. E' un momento decisivo: i due protagonisti partiranno per la luna di miele e, una volta tornati, l'atteggiamento nei loro confronti cambierà radicalmente. I figli di Emmi, il droghiere e le vicine di casa si piegheranno definitivamente alla logica utilitaristica: la donna potrà essere una badante per una bambina piccola, il negozio avrà riguadagnato una cliente fedele, una coinquilina potrà usufruire della cantina dei due. L'accettazione diventa frutto di un compromesso sociale. Le colleghe di Emmi potranno così ammirare la prestanza fisica di Alì, messo in scena come un fenomeno da baraccone. I rapporti tra i due sposi s'incrineranno, incapaci forse d'integrarsi l'un l'altro. Ma l'amore resiste(rà).

In seguito ad un notevole sviluppo industriale, la Germania aveva cercato di far fronte alla scarsità di manodopoera ricorrendo al lavoro d'immigrati. Il film di Fassbinder si sviluppa partendo da questo contesto e lo asciuga progressivamente. Poche location, molti interni con le loro architetture che schiacciano i portagonisti, li isolano come oggetti puntiformi in ambienti scanditi da quinte visive, oggetti che si frappongo fra il punto macchina e i soggetti, spesso distanti, recintati in tableaux illividiti e cupi. Magistrale in questo senso la sequenza (in verità conchiusa in una singola scena) del banchetto nuziale, in cui ad un campo medio con la macchina da presa ad altezza volto, dove i personaggi sono schiacciati dallo sfondo "in altezza", si contrappone un campo lungo geometrocamente composto in cui Emmi e Ali, incorniciati dal décor fintamente ricco del locale deserto, vengoni isolati "in profondità". La paura mangia l'anima, infatti, non è un film concettuale. Non è paradigmatico o dimostrativo. Il concetto è spesso tutto nell'immagine, è l'immagine stessa. Risulta quindi piuttosto depauperante per la qualità del lavoro di Fassbinder (che si riserva un piccolo ruolo nella parte del genero) parlare del film solo sotto il profilo della "tematizzazione" che, comunque, si presenta come più complessa e ambigua di quanto possa sembrare ad un primo sguardo. Tanto più che il problema dell'integrazione, dell'accettazione del diverso, dell'altro-da-sé (che Fassbinder rende quasi pulsionale oltreché atavico) va di pari passo con la necessità socioeconomica del compromesso. In fondo, le due scene che vedono protagonista il negoziante sono un piccolo trattato di neoliberismo di provincia. Il rancore si seppelisce nel capitale. Ragione che sconfigge la passione con l'inganno. Anche le colleghe di lavoro di Emmi abbandonano l'antico risentimento nei confronti della donna e sono pronte a marciare insieme per ottenere un aumento di 50 pfenning. E qui Fassbinder, con un'altra soluzione registica magistrale, imprigiona la nuova lavavetri erzegovina nelle medesime sbarre (la ringhiera di una scala) -di quinta- che precedentemente avevano ghermito proprio Emmi, quand'era considerata ella stessa una relapsa: possiamo pensare che questa nuova Gastarbeiter subisca quindi l'identico destino di Alì? E, inoltre, stupisce la mancata reazione di Emmi, che con condiscendenza acritica non si ribella all'atteggiamento delle compagne:"Non è nemmeno nella nostra classe salariale." Eppure questa lucidità di giudizio talmente inesorabile da sembrare quasi crudele ( confrontare con lo stupefacente Il diritto del più forte dell'anno successivo) è miracolosamente bilanciata da un'intensità filmica spiazzante, struggente. Le carrellate rettilinee, i corpi impersi, l'illuminazione naturalistica, l'impressionante sincerità degli attori sono quasi un pugno nello stomaco di rara possanza. La tensione empatica, così, non è mai compromessa. E l'opera è talmente depurata (ma vien da scrivere "cinematografica") da evitare qualunque ricatto. Tanto più che Fassbinder (anche sceneggiatore) ricorre al finale (indimenticabile e insvelabile) più potente e complesso cui si potesse pensare, un finale che contemporaneamente chiude e apre. In definitiva, un'opera solo apparentemente in tono minore che invita ad un totale abbandono all'immagine, un'immersione sensoriale nel suo incedere liquido, nella sua forma/riflesso. Come in uno specchio.

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