Regia di Sidney Lumet vedi scheda film
La prima impressione è quella che conta. Poco importa cosa c’è dietro/dentro e quali siano i fattori scatenanti di un atteggiamento, innanzitutto se considerato ostico/ostile, per chi guarda distrattamente, concentrato sui problemi che lo assillano senza ammettere orizzonti rassicuranti, la facciata è determinante, divenendo automaticamente essenza, in poche parole l’unico elemento da considerare in una valutazione puntuale.
D’altro canto, ogni individuo è inevitabilmente segnato dalle esperienze pregresse e quando un passato incombente si incontra/scontra con un futuro impossibile, le probabilità che ne esca qualcosa di buono sono pressoché ridotte quasi a zero, qualsiasi siano i propositi iniziali/nascosti/effettivi.
L’uomo del banco dei pegni è un’opera di rara potenza e a tinte forti, contraddistinta da punti fermi inamovibili e prerogative tassative, con peculiarità umane e artistiche che, tra le polemiche scatenate quando uscì in sala ed eccessi qualificanti, gli attribuiscono una forza d’urto – frontale e impetuosa - fuori dalle comuni convenzioni, anche all’interno di tematiche frequenti, in questo caso peraltro in buona parte giostrate/giocate in largo anticipo rispetto ai tempi.
Sol Nazerman (Rod Steiger – Giù la testa, La calda notte dell’ispettore Tibbs) è un ebreo sopravvissuto ai campi di sterminio, dove ha perso tutto quanto aveva per lui un valore, che gestisce un banco dei pegni a Harlem per conto della malavita.
Abituato ad affrontare ogni questione con il massimo distacco e una durezza inscalfibile che non fa alcuna distinzione tra i vari disgraziati che bussano alla sua porta, Sol comincia ad aprirsi quando Marylin Birchfield (Geraldine Fitzgerald – Tramonto, La voce nella tempesta) tenta di avvicinarsi/capirlo e Jesus Ortiz (Jaime Sanchez – Il mucchio selvaggio, Carlito’s way), il suo aiutante, lo incalza con un’esuberante voglia di imparare.
Il trauma che lo ha dilaniato torna così a galla in tutta la sua furiosa prepotenza, con il destino che, ancora una volta, pare intenzionato a non concedergli alcuna via d’uscita, nemmeno quando si consegna disarmato a quello che, in teoria, sarebbe il peggiore degli approdi.
Scritto a sei mani sulla base di un romanzo di Edward Lewis Wallant e diretto da Sidney Lumet (Quinto potere, Quel pomeriggio di un giorno da cani) con fermezza, audacia e incisività, L’uomo del banco dei pegni riesce, ancora oggi, a lasciare il segno.
Raccontando di postumi impressionanti che non annoverano una data di scadenza, nella fattispecie prodotti dall’Olocausto, di condanne – a (soprav)vivere - senza risoluzioni disponibili e di un presente sprovvisto di alcuna speranza afferrabile a cuor leggero, Sidney Lumet allestisce una disamina – solenne e crudele - dagli indicatori infuocati, che emette segnali allarmanti lungo un’evoluzione in costante/inderogabile/irreversibile crescendo, con macigni che tornano a palesarsi, facendosi largo fino a scardinare anche quelle difese autoimposte con una pervicacia assoluta.
Con un tasso estremo e tragico di disperazione e una pertinenza localizzata (è stato girato a Harlem, un aspetto tutt’altro che banale), viene dunque tracciato un viatico (dis)umano che si muove all’interno di un campo minato, uno spaccato che vede il baratro a un passo e una spina che non vuole farsi staccare, con uno stato d’animo in perenne subbuglio e un contorno che aggiunge ulteriori puntualizzazioni, non sempre approfondite con la medesima intensità.
In aggiunta, il materiale artistico assume un’importanza di sostanziale/ragguardevole rilievo (ai tempi, c’è chi ha parlato di gratuita/disgustosa speculazione), con i flash del passato che arrivano a intermittenza variabile (il montaggio di Ralph Rosemblum – Io e Annie, L’incredibile Murray crea lacerazioni scardinanti), tra interferenze scioccanti e spezzoni più profondi/devastanti, incastonati in un bianco e nero strabiliante, settato/impartito da Boris Kaufman (Fronte del porto, La parola ai giurati).
Per ultimo, non certo in quanto a valore, L’uomo del banco dei pegni è attraversato/caratterizzato/valorizzato dalla gigantesca prova attoriale di Rod Steiger, giustamente plurinominato e premiato (al Festival di Berlino), che sfoggia un repertorio ampio e multiforme, salendo ripetutamente in cattedra, come solo gli attori di stampo teatrale possono fare quando sono totalmente coinvolti e in stato di grazia.
In buona sostanza, L’uomo del banco dei pegni è un must see, nonostante – o forse proprio per questa ragione - sia stato messo in disparte (curiosità: in questo film ha esordito Morgan Freeman). Accolto tra clamore e proteste (della censura per le scene di nudo, così come dalle associazioni ebraiche e di quelle afroamericane che non hanno preso per niente bene le descrizioni assestate e le modalità utilizzate, insomma l’appello delle voci contrarie si è fatto sentire al gran completo), porta avanti una missiva urgente, con scelte salienti che spostano gli equilibri, rendendo quanto mai profonda, dilatata e straziante una vivisezione che non si tira mai indietro, neanche per un momentaneo attimo.
Con un invidiabile bagaglio artistico, tra guasti non rimarginabili e pegni da pagare, desideri non accolti e sbandamenti fatali, colpa e redenzione, impulsi e repressioni, sfoghi e insaccature, scostamenti dello sguardo e prese di coscienza, per un film raggelante e acuto, che non si dimentica.
Inquieto e voluminoso, spietato e disilluso.
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