Regia di Manele Labidi Labbé vedi scheda film
Freud, l’Islam, la Primavera araba, le canzoni di Mina: la regista miscela sapientemente gli ingredienti e realizza un film fresco e frizzante come uno spumantino.
Ho visto su Sky Un divano a Tunisi (2019), una commedia gradevole e divertente, senza troppe pretese politico-sociologiche, dell’esordiente regista franco-tunisina Manele Labidi. Si può aprire uno studio privato di psicoanalisi nella Tunisia del dopo Primavera araba, magari con un ritratto di Freud che indossa un fez rosso appeso alla parete? La risposta del film è sì, si può, se si hanno pazienza, coraggio e determinazione, le doti appunto della protagonista, la giovane psicoanalista Selma Derwich (Golshifteh Farahani) ritornata da Parigi nella terra natia per avviare la sua attività di psicoterapeuta. Costretta a destreggiarsi in situazioni complicate spesso accompagnate da risvolti comici e superando peripezie burocratiche, diffidenza e pregiudizi, Selma riuscirà alla fine a vincere la sua sfida professionale riconquistando le proprie radici e forse, chissà, trovando anche l’amore. Curiosa ma piacevole la scelta della regista di iniziare e chiudere il film con due belle canzoni di Mina, Città vuota e Io sono quel che sono: un omaggio all’Italia del boom degli anni ‘60 e un augurio di prosperità al suo paese d’origine? Novanta minuti di intelligente e briosa leggerezza che hanno vinto il Premio del pubblico delle Giornate degli autori al Festival di Venezia del 2019.
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