Regia di Manele Labidi Labbé vedi scheda film
Venezia 76. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica.
Golshifteh Farahani è una bella donna. Non ci piove. Ed ha un modo di esprimersi, sul palco della sala Perla, che ricorda una ragazzina inquieta alla presenza del sedicenne che le fa la corte. Non le manca certo la parola e non si nasconde ai microfoni in una sala ricolma fino all'inverosimile. Ma l'atteggiamento dell'attrice iraniana sembra più che altro il frutto di una persistente abitudine a combattere la timidezza. Ad ammirarne i gesti e la postura mi pervade una curiosa sensazione. L'esperienza internazionale di questa giovane artista mi lasciava immaginare una donna completamente padrona di sè, un po' come la ragazza francese che interpreta in "Un divano a Tunisi".
Nel film d'esordio di Manele Labidi, Farahani è Selma, giovane donna di origini tunisine laureata in psicologia. Conscia delle difficoltà di farsi strada nell'ambiente medico francese, ormai saturo di professionisti come lei, Selma prende la decisione incredibile di trasferirsi nel paese d'origine ed esercitare lí la professione medica. Selma ha le idee chiare a proposito. A tal fine risistema la piccola casa di famiglia a Tunisi ed inizia a professare la propria "fede" in un ambiente ostile verso le donne e verso la scienza, dove la gigantografia del padre della psicanalisi, l'ebreo Freud, viene, costantemente, scambiata per l'effige di un eminente musulmano.
Il divano che Selma pone in centro allo studio, quindi al centro della propria esistenza professionale, è testimone delle speranze e delle frustrazioni di una società tunisina, post-primavera araba, in bilico tra modernità e tradizione, tra libertà di azione e timore delle istituzioni, passata al setaccio dalla tipica prospettiva di chi, come la regista, è nato e cresciuto in luogo diverso da quello dei propri genitori. Labidi fa accomodare sul sofà una società difficilmente catalogabile e che dietro la facciata nasconde segreti e virtù che non hanno latitudine.
L'analisi sociale si alterna al resoconto delle personali vicende della protagonista. Alle prese con lo scetticismo, poi con la burocrazia, Selma affila le unghie per poter continuare il lavoro che la ripaga con la soddisfazioe di essere utile ai pochi pazienti rimasti dopo l'iniziale curiosità. Selma raccoglie più di quanto abbia seminato in un gioco di inversione dei ruoli per cui il curante diventa il paziente. I rapporti con gli assistiti l'aiutano ad aprirsi portandola sulla via della pacificazione interiore mentre una fiduciosa predisposizione verso le relazioni interpersonali si fa strada rendendola disponibile all'incontro. Gettate queste fondamenta, che per Labidi equivalgono ai pilastri reggenti la comunità stessa, il futuro di Selma, come quello del paese, sembra più roseo.
"Un divano a Tunisi" è un'opera leggera che trova nella terapeutica virtù del sorriso la ricetta per costruire un dialogo intorno a questioni delicate, rimaste in silenzio negli anni più bui del governo tunisino. A metà strada tra la vivacità maghrebina e l'essenza della commedia francese un "Divano a Tunisi" è stato premiato dal pubblico delle Giornate degli Autori durante l'ultima Mostra del Cinema. L'entusiasmo degli accreditati in sala lascia ben sperare per un buon risultato nelle sale che affrontano i dubbi della riapertura. Sperando che il film, inizialmente programmato ad aprile, riesca a farsi strada nella calca dei prossimi mesi. Lo meriterebbe la bella e coraggiosa Selma vera anima battagliera che si nasconde dietro al dissimulato candore di Golshifteh Farahani.
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