Regia di Robert Guédiguian vedi scheda film
Venezia 76 – Concorso.
Un clima familiare non sgorga dalla sera alla mattina, ha bisogno di tempo e cure amorevoli per attecchire e germogliare. Nel caso del cinema del regista francese Robert Guédiguian, la complicità con i suoi tre interpreti feticci - sua moglie Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin e Gérard Meylan -, che convoca ripetutamente da decenni, ha raggiunto un stato di simbiosi assoluta.
Anche in Gloria Mundi, il loro respiro è miracolosamente sincronizzato. Al contrario, i tanti altri personaggi con cui duettano paiono spesso pezzi fuori dal coro e la chimica narrativa, stressata in un eccesso di diramazioni e vicissitudini, ne risente pesantemente.
Poco tempo prima di essere rilasciato dopo vent’anni di prigione, Daniel (Gérard Meylan) scopre dall’ex moglie Sylvie (Ariane Ascaride) di essere appena diventato nonno.
Così, appena tornato in libertà, si reca da lei e conosce per la prima volta Richard (Jean-Pierre Darroussin), l’uomo che l’ha sostituito in casa crescendo sua figlia Mathilda (Anais Demoustier), riservandole lo stesso amore dato ad Aurore (Lola Naymark), la sorella minore nata dall’unione tra Sylvie e Richard.
A Daniel serviranno pochi incontri per capire le difficoltà economiche sofferte dalla sua famiglia, con Mathilda senza un posto fisso di lavoro e suo marito Nicolas (Robinson Stévenin) costretto a casa per un grave infortunio subito in un’aggressione.
Nel suo piccolo, cercherà di dare una mano per migliorare una situazione sul punto di esplodere.
Sono trascorsi appena due anni dal poetico La casa sul mare, ma con Gloria mundi veniamo catapultati in una visione di tutt’altra risma. Questa volta, non sono i piccoli gesti ad apportare la differenza, non emergono quei comportamenti fuori dal tempo che riscaldano il cuore e la tematica sociale è spintonata in troppe biforcazioni per mantenere un minimo di integrità.
Così, la fonte di felicità offerta da una nuova vita, finisce precocemente nello sgabuzzino per lasciare il campo libero alle difficoltà economiche, strettamente correlate al mondo del lavoro. C’è chi non trova un’occupazione fissa (Mathilda), chi ha tentato la carta Uber finendo per essere malmenato (Nicolas), chi non lavora tranquillo sotto la pressione di uno sciopero (Sylvie) e chi, per il nervosismo dovuto a questa fase tribolata, compie una pericolosa leggerezza alla guida di un autobus (Richard). Parimenti, gli unici due elementi ad essere riusciti a raggiungere la tranquillità economica, ossia Aurore e suo marito, hanno completamente smarrito la bussola morale e non portano rispetto per nessuno, nemmeno per loro stessi.
Questo desolante scenario è dragato da Daniel che, grazie alla sua posizione esterna, ha una prospettiva non inquinata. Il suo è il ruolo migliore e Gérard Meylan comunica una straripante, ma non rassegnata, malinconia. Fino all’ultimo sarà proprio lui a cercare di mettere delle pezze, tra altarini sconvenienti (esasperati in maniera clamorosa), molteplici apprensioni e lotte tra simili – gli umili - in cui tutto escono regolarmente sconfitti.
Insomma, la carne al fuoco abbonda e Robert Guédiguian allarga di conseguenza il raggio del compasso. Purtroppo, gli smottamenti sono eccessivamente numerosi e le reazioni assumono caratteristiche burrascose, con un crescendo finale che certifica un disordine controproducente, un’artificiosità che inquina irrimediabilmente la naturalezza degli avvenimenti. A rimanere impressi sono, per l’appunto, la straordinaria e poetica dolenza di Gérard Meylan, il carattere pugnace di Ariane Ascaride e gli scorci di Marsiglia. Una rendicontazione striminzita per un film che si occupa di raccontare una famiglia al tempo della crisi economica (a proposito, riusciremo mai a uscirne?).
Tra i peggiori Guédiguian di sempre.
Strattonato.
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