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Nomadland

Regia di Chloé Zhao vedi scheda film

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Questo testo contiene anticipazioni sulla trama.

La recensione su Nomadland

di laulilla
9 stelle

I cinefili delusi, che si aspettavano un documentario, forse potrebbero apprezzare l’insolito narrare che raccoglie – in modo originale – suggestive e frammentate immagini evocatrici di grandi film del passato, decontestualizzate e fatte rivivere per testimoniare una cultura che non deve morire.

 

Una bella sorpresa questo rientro in sala per me. Per fortuna  le storie vere non sempre si traducono in documentari senz’anima, perché la verità, nel cinema come nell’arte, è quella del cuore dell’uomo.
Anche Fern (meravigliosa Frances McDormand) lo aveva imparato nel corso degli anni, attraverso la cognizione del dolore, che l’aveva resa lucida e combattiva fino alle soglie della terza età: così la vediamo all’inizio del film quando ha appena oltrepassato la sessantina.

Dopo gli anni belli e pieni di speranza, quando era una  giovane supplente nella scuola, aveva dovuto via via accettare impieghi meno importanti e meno gratificanti, ai quali si era sempre adattata, dappertutto stringendo amicizie vere e rapporti di solidarietà, cosicché, quando l’ultima fabbrica del suo lavoro “a tempo indeterminato” , a Empire, nel Nevada, aveva dovuto chiudere la produzione di cartongesso, aveva cercato di rimaner ancorata almeno alla casa, nel villaggio dei lavoratori adiacente, finché (era stato abolito persino il CAP), dovendo allontanarsene, si era messa in viaggio portando con sè le poche cose che avrebbero contribuito – nel corso degli anni – almeno a non dimenticare chi era stata, chi aveva conosciuto, e anche  l’uomo che, nella salute e nella malattia, aveva amato e accompagnato a morire.

 

Era partita, allora, come i pionieri contro il corso del sole, verso il West dei grandi deserti e dei grandi miti americani, a bordo di un vecchio fuori strada, organizzato come una monocamera nella quale non mancavano le cose indispensabili a sopravvivere con la propria identità: aveva ancora le forze fisiche per accettare anche i lavori più faticosi, e molta voglia di conoscere l’umanità e di scoprire le bellezze dei luoghi, della natura selvaggia e libera, fra i nidi delle rondini e i reperti fossili, testimoni di antiche, precedenti civiltà.

Era diventata nomade, anche per scelta, ritrovando qualche volta sulla strada gli amici di un tempo, qualche ex collega mentre nuovi amici si aggiungevano, ne seguivano il percorso per brevi tratti, sapendo per esperienza che sulla strada nessuno si perde per sempre e che tutti, prima o poi si ritrovano…

 

 

 

 

 

Sinceramente temevo l’aridità della denuncia documentaristica: in fondo sarebbe stato più facile riflettere sull’americano medio, costretto a sopravvivere “mendicando sua vita frusto a frusto” in una nazione che l’aveva illuso dapprima, per degradarlo poi senza pietà.
Il film invece diventa la rappresentazione potentemente simbolica di un viaggio fatto di avventure impreviste, di ritorni e anche di soste non sempre programmate, che infine  coincide col percorso della vita stessa.
È ben vero che i titoli di testa ci avevano parlato di una storia vera, all’origine del film, fornendoci anche le informazioni sul tempo e sui luoghi del suo avviarsi, tuttavia diventa sempre più evidente che la storia di Fern è la storia di tutti noi, del nostro inevitabile muovere verso infiniti spazi (vuoti?) dei quali il deserto, sempre più gelido e nebbioso, ci appare un po’ alla volta una bellissima rappresentazione metaforica

Si avverte la dolcezza di uno sguardo diverso, quello orientale e femminile della regista* che trova nell’intelligenza interpretativa di Frances Mc Dormand l’ideale espressività per rendere vero, profondamente, il viaggio, on the road di tramonti malinconici e vieppiù cupi, nonché indagine sul senso del rinnovarsi della vita, del suo continuare oltre la morte individuale, quando i nostri corpi rientreranno nel ciclo naturale della distruzione e delle rinascite, e forse qualcuno raccoglierà la memoria di noi e di ciò che abbiamo dato agli altri, ciò che davvero conta.

 

*La regista è la pechinese Chloé Zhao, ottima conoscitrice della cultura occidentale, e del suo cinema, grazie agli studi portati avanti fra Londra, New York e Los Angeles.

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