Regia di Chloé Zhao vedi scheda film
“Gli sembrava che il modo di morire di una persona avesse molto più significato del modo in cui era vissuto. O meglio, è il modo in cui si è vissuti a decidere il modo di morire.” (Haruki Murakami)
In periodi storici diversi, il cinema americano ha rappresentato la sua società per settori distinti, attraverso l’ambientazione urbana globale, la frammentazione della provincia conservatrice, gli spazi e gli scenari naturali usati per una trascendenza individualista o per idealizzare nuove comunità alternative al sistema. Nomadland non è il ritratto ferito di una nazione che vede affievolirsi il proprio sogno di grandezza, tanto meno il riscatto degli esclusi e dei marginali che si riappropriano del diritto a stare sulla terra. È il manifesto della non appartenenza, del distacco da ogni ambiente in favore della possibilità di un recupero di una intima dimensione umana che richiede però un prezzo da pagare. La sessantunenne Fern ha perso da poco il marito, la cittadina sorta intorno ad uno stabilimento industriale poi chiuso nel quale lavorava è stata cancellata dalla geografia economica e sociale, costringendo chi ci abitava a trasferirsi altrove. Per Fern, lavoratrice precaria senza il diritto ad una pensione non resta che vagare con il suo furgone che diventa la sua casa per cercare di fare ordine dentro di sé. La promettente regista di origine cinese ma di formazione statunitense Chloe Zhao dopo il notevole The Rider, Il Sogno Di Un Cowboy(2017) torna ad indagare sullo sradicamento, su come reagire alla tristezza e al dolore di una perdita che si rivela totale, dal punto di vista affettivo, materiale e dell’identità stessa. L’essenzialità dei dialoghi lascia spazio all’osservazione, a quello sguardo interiore che deve cominciare a fare da guida lungo paesaggi fugacemente struggenti, appena accennati. La colonna sonora di Ludovico Einaudi seppure in alcuni momenti intervenga con discrezione, talvolta sottolinea con accenti un po' troppo lirici lo stato d’animo suscitato dalle immagini, sottraendo dei momenti di silenzio che sarebbero diventati insostenibili. Il film ruota sulla protagonista Fern, che incrocerà diversi personaggi significativi che la indurranno a ripensare alla propria vita. Interpretata dalla brava Frances Mc Dormand, mai così intensa e allo stesso tempo controllata, sottratta alla sua personalità dirompente ed espansiva che ha sempre connotato i suoi personaggi. Siamo portati a pensare che si sia creato un così forte affiatamento tra l’attrice, la regista e lo script che il suo contenimento sulla scena sia stato dovuto a quanto si sia sentita vicino ad un personaggio tanto sfaccettato ma anche geloso della propria intimità da farla agire con una naturalezza che ci appare davvero sincera. Il peregrinare di Fern chiede conto del tempo che scorre, di quello che non ritorna, dentro il furgone raccoglie gli oggetti che tende a scambiare con fatica nei campi di raduno con altri che fanno la sua stessa vita e che solidalmente cercano di aiutarsi. Quel cumulo di materialità che definisce una persona agli occhi degli altri, rappresenta quello che la tiene ancorata alla realtà, al diritto acquisito di avere avuto un tempo passato, ma con la sua progressiva elaborazione dovrà essere in grado di cederli, di capirne fino in fondo il loro significato simbolico. Fern farà tesoro delle conoscenze e delle esperienze umane incrociate per la sua strada e compirà delle scelte, forse le prime cose che sentirà davvero sue. Si percepisce in maniera netta più che il variegato mondo dei diseredati che specie dopo la crisi del 2008 ne ha gonfiato le fila, lo smarrimento, il disagio interiore delle singole persone che ad un punto cruciale della loro esistenza devono guardarsi intorno per vedere ancora se c’è una strada da percorrere. In compagnia della propria solitudine, che rappresenta il vero oggetto di conquista, e se vogliamo è questo il prezzo da pagare alla nuova consapevolezza. Intanto come si dice nel film, tra nomadi: prima o poi ci si vede in giro..
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