Regia di Chloé Zhao vedi scheda film
Zhao punta sulla poetica della marginalità e l'epica delle minoranze,sfiorando il nervo scoperto delle falle del modello liberista post-subprime e puntando al valore di una scelta radicale e minoritaria che riassume nella decrescita felice e nella riscoperta del contatto con la natura una filosofia di vita alternativo alla stanzialità consumistica
Persi lavoro e marito in un colpo solo, la non più giovane Fern inizia una carriera improvvisata di lavoratrice stagionale a bordo di un furgone attrezzato lungo le vie dell'Ovest americano. La sua radicale decisione di non mettere più radici si traduce nelle difficili scelte di rinuncia agli affetti stabili e ad una vita errabonda nel limbo pittoresco dei diseredati d'America.
Al suo terzo lungometraggio la polivalente regista cinese Chloé Zhao ritorna con un tema incentrato sulla poetica della marginalità e l'epica delle minoranze (due fratelli nativi orfani di padre, un ultimo mandriano male in arnese) con questo adattamento dell'omonimo libro-inchiesta di Jessica Bruder, sfiorando il nervo sensibile e scoperto delle falle del modello liberista post-subprime e puntando senza tanti preamboli al valore di una scelta radicale e minoritaria che riassume nella decrescita felice e nella riscoperta del contatto con la natura una filosofia di vita alternativa alla comfort zone della stanzialità consumistica. Con un piglio documentaristico che fa però del racconto e della psicologia dei suo personaggi la centralità del suo discorso cinematografico, la Zhao mette in scena l'ariosa dialettica tra gli immensi spazi disabitati di un paese troppo spesso associato alle giungle d'asfalto delle sue immense megalopoli e l'inesplorata terra di nessuno abitata da gli eterni ritornanti di una frontiera americana ormai ridotta all'itinerario turistico di una stagionalità lavorativa che si arrende alla propria condizione di sussistenza; una zona grigia sospesa nello spazio e nel tempo in cui coltivare la dolorosa memoria di affetti perduti e traguardare l'orizzonte senza speranza di un ciclicità produttiva itinerante che dia il sapore e l'illusione di una libertà sempre appena a portata di mano. Nel loop in cui la stessa protagonista (una McDormand costantemente in levare) si ficca volontariamente, la consapevole volontà di espiazione di chi ha fatto scelte magari sbagliate ma che ha confidato esclusivamente sulle proprie forze; ma anche e soprattutto il prototipo umano e credibile di una resilienza civica che ha derubricato il lavoro da irrinunciabile statuto di appartenenza sociale a mero strumento di sussistenza biologica. A dispetto delle apparenze quindi, un film che predilige la poetica umanista all'impegno civile, centrando la sua attenzione sulla dolente condizione di chi vive da nomade nella terra di mezzo di una irrangiungibile felicità e relegando la critica politica alle brevi incursioni pubbliche di un canuto profeta del deserto che piange in privato la prematura perdita del figlio od alle brevi battute sulle speculazioni immobiliari fatte nel comodo giardino di una casa borghese da cui filarsela alla chetichella nell'alba di un giorno qualunque e senza lasciare alcuna traccia di sè. Leone d'oro al miglior film alla 77ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia.
...quanta polvere c'è
dentro casa è tutto un velo...
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