Regia di François Truffaut vedi scheda film
È l’ultimo film del ciclo Doinel. Se è vero che puoi lasciare l’India, ma l’India non lascia te, è anche vero che puoi lasciare Doinel, ma Doinel non lascia te. Per il canto del cigno del suo personaggio-mito, François Truffaut ha bisogno di rasserenare lo spettatore: non può lasciare Antoine (e quindi Jean-Pierre Léaud, che gli deve la carriera, e di conseguenza anche sé stesso – Truffaut è Antoine Doinel che è Léaud) in balia del suo divenire drammatica, deve concedergli tranquillità, mai pace perché Doinel non ne conosce il significato, una parvenza di stabilità emotiva. L’amore fugge è l’ultimo dei dieci film dei prolifici anni settanta di Truffaut (iniziati con la pedagogia del Ragazzo selvaggio, segnati dall’incubo delle ossessioni di Adele H., L’uomo che amava le donne e La camera verde e rifioriti con il nuovo corso di Effetto notte), e chiude idealmente, ma anche stilisticamente, un capitolo della carriera del regista.
Truffaut sa benissimo che non può chiedere un capitolo lasciando in sospeso il suo alter ego. E con la quinta puntata della ventennale saga di Doinel, Truffuat non offre una sintesi del personaggio (sarebbe stato scontato): più che una sintesi tematica, ne è l’analisi. Non è semplicemente l’epilogo di un lungo romanzo in cui si sono intrecciate la finzione che attingeva alla realtà (Doinel nasce come sfogatoio delle frustrazioni infantili dell’autore) e la realtà che si serviva della finzione (attraverso i cinque film del ciclo si possono osservare i mutamenti del volto di Léaud e l’affilamento della tecnica di Truffaut), ma soprattutto una tenera resa dei conti e un delicato bilancio sullo stato del cinema truffautiano, che inevitabilmente si amalgama con le sensazioni dell’ormai quarantenne Doinel.
La maturità, d’altronde, è il tema principale del film – che è, tanto per citare Effetto notte, ormai una Bibbia del pensiero truffautiano, un film più armonioso della vita, in cui non ci sono intoppi, non ci sono rallentamenti, che va avanti come i treni nella notte – e, come a stringersi in coro intorno a Doinel, ecco che sfilano tutti i personaggi che l’hanno accompagnato nel corso dei vent’anni. C’è Christine, l’ex moglie da cui ha avuto un figlio (ma non c’è Fabienne Tabard, forse dimenticata dallo stesso personaggio – eppure quel monologo monocorde davanti allo specchio… ricordate Baci rubati?); c’è Alphonse, il figlio; c’è Colette, (“il primo amore non si scorda mai”, diceva L’uomo che amava le donne – che poi è sempre Truffaut) che è diventata avvocato e ha una situazione sentimentale turbolenta; c’è la mamma di Colette, a cui è destinato uno dei momenti più struggenti di tutto il cinema truffautiano (la morte della figlia di Colette); c’è l’amante principale della madre, che ne i I 400 colpi aveva un ruolo secondario; c’è la madre, sottoforma di lapide, verso la quale non si provano che turbamenti nostalgici, seppellita dall’amante accanto alla Dama delle Camelie; e poi ci sono le scene degli altri film del ciclo, che fanno da collante evocativo alla narrazione, dall’incontro con la psicologa de I 400 colpi a quello con Colette in Antoine e Colette fino a vari spezzoni di Baci rubati e ad immagini sparse di Non drammatizziamo… è solo questione di corna.
È come se L’amore fugge fosse una piccola grande festa dell’immaginario realistico truffautiano, l’inevitabile chiusura di un fondamentale capitolo esistenziale, attraversato dalla bella canzone di Alain Souchon. Lieto come una domenica in campagna condita di tradimenti improvvisi, sfuggente come un treno che si nasconde nel buio della galleria, malinconico come sanno essere le storie d’amor perduto raccontate in un libro semiautobiografico (che poi anche le autobiografie sanno mentire – tutto dipende dall’intento dell’autore), dolce quanto una ragazza innamorata che ti porge la mano, L’amore fugge è il film di Truffuat fatto per i truffautiani. È per tutti, certo, ma solo i proseliti del regista (e di Doinel) possono trovare le giuste suggestioni emozionali: ogni angolo respira di evocazione, non c’è attimo in cui il ricordo se ne sta silenzioso nella sua sede cerebrale. Fugge, anche lui, alla ricerca di un porto sicuro. Per Doinel, per Léaud, per Truffuat. Un commiato struggente e sereno.
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