Regia di François Truffaut vedi scheda film
Una bella definizione di nouvelle vague l’ha data Antonio Scurati. È cinema cerebrale, in cui è la realtà a mentire a spese della finzione. Non so se sia così, ma è probabile che la corrente che ebbe in François Truffaut il suo figlio più sensibile sia stata qualcosa di vicino alla tesi di Scurati, che non è critico, ma spettatore. Sicuro è, però, che nessuno ha saputo raccontare quel determinato momento, decisivo per la formazione, del passaggio dall’infanzia all’adolescenza come il nostro François.
Sarà forse per la matrice probabilmente autobiografia (è una reinvenzione della stessa infanzia dell’autore), sarà per quello sguardo lucido e coinvolto sui ragazzini, sarà per quella partecipazione alla storia, ma il film di Truffaut è un film fondamentale per capire anche il presente. Anzi, per capire l’universalità dell’azione umana infantile (di ieri, di oggi, di domani). I bambini sono sempre uguali a loro stessi, sia tra i banchi di scuola (gli scherzi al compagno fessacchiotto, gli sfottò all’insegnante, le punizioni, le solite solfe ripetute dal maestro, le bugie per giustificarsi – anche grossolane) che tra le mura domestiche, l’intimità del privato (le prime sigarette fumate con il gusto della scoperta, i tanti pomeriggi da solo, a soffiare le palline dalle cannucce per disturbare i passanti o a leggere Balzac, le litigate dei genitori ascoltate da un’altra stanza), e Truffaut ha saputo rappresentarli nelle loro angosce mai manifestate esplicitamente e nei loro comportamenti involontariamente ambigui ed esibizionisti.
Siamo stati tutti, chi più e chi meno, un po’ Antoine Doiniel, il piccolo protagonista de I 400 colpi, la folgorante opera prima di François Truffaut, erede della tradizione neorealistica (il pedinamento del bambino nella vita di tutti i giorni) e inauguratore di un rinnovato modo di intendere il cinema. È il primo capitolo di quella che sarà la saga delle avventure di Antoine Doiniel (proseguita in seguito con L’amore a vent’anni, Baci rubati, Non drammatizziamo... è solo questione di corna e L’amore fugge).
Scelto dopo un clamoroso provino di sfrontata immaturità ed impressionante talento naturale, il quindicenne Jean-Pierre Leaud ne è il memorabile interprete: il suo legame col regista è una delle storie di cinema più belle di tutti i tempi. Qui il nostro piccolo antieroe attraversa una Parigi vista dal basso, a misura di bambino, non viene compreso da un maestro rigido ed ottuso ed è alle prese con la crisi coniugale della madre (ha un amante) e del secondo marito e la negligenza per gli studi.
Beccato a rubare una macchina da scrivere nel momento in cui, paradossalmente, la stava riportando al proprietario, passa la notte in caserma tra prostitute e ladri, finisce in riformatorio da cui scappa per correre via verso il mare, che non aveva mai visto. E quello struggente carrello finale, con la fuga liberatoria tra le piante e le erbe, verso il mare, simbolo della libertà e della incontaminatezza dell’essere, lo sguardo perso eppure consapevole del futuro, il fermo immagine di quell’espressione è semplicemente indimenticabile.
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