Regia di Xavier Dolan vedi scheda film
Emozionante ritorno in sala : pochi gli spettatori, tutti – accuratamente controllati per rilevare la temperatura – indossano le mascherine e rispettano le distanze, come viene raccomandato. Allo spettacolo delle 18,30 di sabato, al cinema Massimo di (Museo del Cinema) di solito affollato, vedevano questo attesissimo film meno di venti persone.
Incontrare a trent’anni i vecchi compagni di scuola che hanno organizzato, in casa Rivette (nome fortemente evocativo per chi ama il cinema), una festa di arrivederci (o d’addio?) per lui, Maxime (Xavier Dolan) che sta per lasciare Montreal alla volta dell’Australia dove si fermerà due anni per guadagnarsi da vivere facendo il cameriere.
Maxime ha trent’anni suonati, fa lavori precari, ed è schiacciato dalla responsabilità di badare a quella madre (Anne Dorval) impossibile (alcolista, tabagista e sprecona) che ha evidente necessità di accudimento e che continua a ferirlo con la disistima, gli insulti e persino con le aggressioni fisiche più sanguinose, che lasciano sul volto le loro tracce, non diversamente da quell’ angioma vistoso che ne connota il viso dalla nascita, quasi un segnale metaforico di un destino di dolore.
Il film scandisce, con una serie di “quadri” significativi, il particolare calendario di Maxime: i turbamenti del passato e la difficile adolescenza, nonché i giorni che lo separano dalla partenza per l’Australia, ovvero da quel taglio netto che egli impone a se stesso per dimenticare il dolore e darsi un futuro.
Sembrerebbe un normale film di Dolan: la madre ricorda un po’ la madre del suo primo film, quella che egli “aveva ucciso”, così come gli amici, o come la propria diversità - qui emblematicamente sottolineata da quel viso sfigurato - o come la disperata ricerca di un affetto vero.
In realtà il tempo ha peggiorato i rapporti familiari e quelli di vicinato: le amiche materne che lo avevano visto crescere sono anch’esse insopportabili megere, né la memoria ritrovata dell’adolescenza evita il doloroso confronto fra speranze giovanili e la realtà del presente, lasciando dietro di sé l’amarezza del disincanto.
Un nuovo motivo di turbamento mette, però, in forse la sua partenza: è riemerso dal passato, dove sembrava destinato a rimanere, il ricordo di un bacio scambiato fra lui e il compagno di classe Matthias (Gabriel D’Almeida Freitas) durante una festa per l’ultimo giorno di scuola.
Ora quel bacio si ripropone (e assume la forza dirompente di un invito a definire la propria identità sessuale) per la richiesta della sorella dell’ospite, Rivette anche lei, cineasta in erba, che vuole girare un film a soggetto gay e individua in lui e in Matthias la coppia giusta per il suo “corto”, riportando, senza volere (?) a galla la vecchia storia, rimasta nel mondo del pettegolezzo malizioso fra gli amici, sepolta dalla vita, ma mai del tutto rimossa da Matthias, che aveva preso coscienza subito delle emozioni suscitate da quel bacio, accettando il conflitto fra la realtà, nella quale era già ben inserito e nella quale intendeva rimanere, e il sogno d’amore che per l’indifferenza evidente di Maxime non si era realizzato.
Matthias aveva conosciuto tutti i vantaggi di una posizione sociale elevata; ora è un famoso avvocato, ha una compagna che non ama e si muove in un mondo tollerante, comprensivo e disposto ad accettare la “diversità” delle scelte sessuali. Con la sicurezza ferma che gli viene dalla propria condizione economica e dal proprio prestigio sociale, Matthias spera che Maxime non se ne vada, ma che accetti tranquillamente l’amore accanto a lui.
La scansione del tempo diventa perciò una tesa scommessa d’amore, in un clima di crescemte mélo, di cui Dolan è riconosciuto maestro e in cui mescola, con magia unica e personalissima, immagini, musica e colori che sono soprattutto proiezioni del desiderio dei corpi e delle anime.
Così era stato anche per la scena indimenticabile, all’inizio del film, quando Matthias, immergendosi e perdendosi nelle profondità del lago Ontario, aveva riconosciuto e accettato se stesso, sfidando lo spessore limaccioso delle insidiose profondità, per uscirne, infine, rinfrancato con se stesso, in attesa della risposta di Maxime che non sarebbe arrivata.
Anche qui, come nei film precedenti, ritroviamo il divertente gioco dei formati, che si adattano ai diversi stati d’animo, il gusto fluidissimo della sinestesia e della contaminazione dei generi, fra il pop e il sublime, l’urgenza espressiva sopra le righe, che può anche respingere parte del pubblico, ma che non passa sicuramente inosservata.
Da vedere sicuramente, nel sensualissimo quebecois originale e, possibilmente, su grande schermo, per coglierne appieno la suggestione.
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