Regia di Kasi Lemmons vedi scheda film
“The Birth of a Nation”, “12 anni schiavo”, “Django Unchained”, giù giù fino a “Il colore viola”: il filone è quello. Storia vera di Harriet Tubman che, nata schiava, scappa iniziando una battaglia che porterà alla liberazione di centinaia di altri schiavi.
La prima parte nella magione schiavista con fuga annessa è la migliore. Lecito aspettarsi un crescendo, invece proprio quando il film dovrebbe decollare appieno i toni si smorzano, il pathos si affievolisce. La dura lotta di questa donna contro il sistema manca di cuore e sentimento, colpa soprattutto dello scarsissimo lavoro sui personaggi e di alcune trovate tremendamente fuori luogo. Harriet ha sogni e visioni che fanno capolino quasi a voler supportare una narrazione arrancante. Parla con Dio e Dio la ascolta e la asseconda, compiendo piccoli miracoli per aiutarla nel percorso: si entra nel mistico, letteralmente, perché i confini della realtà sono scavalcati (la scena dell’attraversamento del fiume), senza che però il discorso – solo abbozzato – abbia un’eco, un riverbero o sia d’aiuto nella descrizione della protagonista. Il risultato è la credibilità appesa a un filo, con grosso rischio di sprofondare nel ridicolo. Ci sono gli schiavisti bianchi cattivi cattivi, c’è lo schiavo traditore che sta dalla parte loro, ci sono questi e troppi altri stereotipi ad affossare il film, che ha il solo merito di rendere giustizia a un volto dimenticato della Storia, ma lì s’esaurisce il suo senso. No, un altro merito lo vanta: “Stand Up” cantata dalla Erivo, che meritava l’Oscar, tristemente confinata ai titoli di coda.
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