Regia di Franco Giraldi vedi scheda film
Un'interessante indagine su Italo Svevo e la sua Trieste, svolta intervistando chi lo conosceva.
Franco Giraldi ha il duplice talento del regista di film di finzione e di film documentari. Forse addirittura nel secondo caso il talento è superiore, perché tutti quelli che ho visto gli sono riusciti “col buco”.
Qui siamo in presenza di un interessante e prezioso documento che verte sullo scrittore triestino Italo Svevo, e che non ci nega alcune digressioni su Trieste, come su altri personaggi che rimangono coinvolti nell'operazione. In anni in cui diversi familiari dello scrittore erano ancora in vita, a cominciare dalla figlia, Giraldi svolse una serie di interviste in cui rivolse domande sui ricordi personali di ciascuno di loro quanto al defunto parente Ettore Schmitz, che in arte si chiamava appunto Italo Svevo. Le testimonianze sono interessanti, sia perché raccontano fatti pochi conosciuti e di vita quotidiana che riguardano lo scrittore, sia perché sono di prima mano e quindi più autentiche. Ne esce il ritratto di un uomo assomigliante ai suoi personaggi inetti e rinunciatari, a cominciare dallo stesso Zeno. Un uomo che rinunciava a combattere a anche quando un amico gli diceva che avrebbe dovuto reagire, che prometteva (spesso) davanti a tutti che avrebbe smesso di fumare, e che non era capace di governare veramente la sua vita. Del resto la sua famiglia di origine era di tipo matriarcale, con una nonna dispotica che teneva tutti i nipoti a bacchetta.
Personaggi celebri che vengono intervistati sono lo scrittore Fulvio Tomizza, lo psichiatra Franco Basaglia, e l'attore Omero Antonutti.
Dalle interviste emergono elementi interessanti anche su James Joyce, che di Svevo era amico, e che con lui parlava perfettamente il dialetto triestino. Fu proprio Joyce a incoraggiarlo a continuare a scrivere nonostante gli insuccessi che aveva ottenuto. Grazie allo sprone dell'irlandese dall'aspetto dimesso e “di poveretto” (così gli intervistati), Svevo scrisse il suo più famoso romanzo, cioè “La coscienza di Zeno”, che lo portò finalmente al successo, ma che potè godere per poco. La morte in un incidente stradale a Motta di Livenza, infatti, già lo attendeva.
Un altro personaggio che entra di striscio nel quadretto è Freud, che era attivo a Vienna.
Della Trieste austro-ungarica esce un quadro vivo, mentre tra i denti si ammette che (almeno nel 1978) rimaneva una città non pienamente integrata nel panorama italiano. In questo senso, viene tracciato un parallelo tra il pigro e indolente personaggio di Zeno e la Trieste del 1978, la cui unica fascia veramente attiva erano i commercianti, che facevano affari d'oro con le folle di acquirenti jugoslavi.
Giraldi ha la mano ferma nel maneggiare la cinepresa ed è avaro di parole. Fa poche domande agli intervistati, precise, non ricattatorie, e non li tira mai per la giacca o il golfino per farli dire quello che vuole lui. Se gli intervistati contraddicono l'impianto della domanda, lui non replica. Non cerca il sensazionalismo e non interrompe mai. Insomma, non incorre in molti dei difetti del documentarismo moderno, esagitato, manipolatorio e vacuo, che inonda molti canali televisivi. Qui si respira un'aria pacata, riflessiva, di cultura, di rispetto per l'argomento trattato. L'intelligenza del regista riesce a suscitare l'interesse dello spettatore con mezzi nobili, a farlo pensare, e a lasciargli qualcosa dopo la visione.
Tra un'intervista e l'altra passano alcune immagini della Trieste di allora, comprese delle panoramiche dal ciglione carsico.
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