Regia di Paul Thomas Anderson vedi scheda film
“There’s something I need to tell you. It’s something you need to know. It’s important. I need to tell you. I love you, John. I love you like you were my own son.”
Reno, Nevada: solitario e accovacciato all’esterno di un coffee shop, John (John C. Reilly) accetta l’invito per un caffè e una sigaretta da parte di un signore distinto di nome Sydney (Philip Baker Hall). Questi prende a cuore la situazione di John, che dice di aver bisogno di 6’000 dollari per seppellire sua madre e di aver perso i suoi pochi risparmi a Las Vegas cercando di raggiungere quella cifra grazie al gioco d’azzardo. Si dà il caso che Sydney sia una vecchia volpe dei casinò, pronta a tornare subito a Las Vegas ad elargire consigli al giovane disperato e riluttante; innanzitutto Sydney insegna a John un trucchetto per dare l’impressione di essere un giocatore navigato ai cashier e farsi offrire una stanza d’albergo.
In seguito, un paio di anni più tardi, i due saranno ancora insieme per casinò a vivere un rapporto simbiotico da mentore e discepolo. In una delle loro posate e ordinarie serate fra drink e gambling, i due fanno la conoscenza di Jimmy (Samuel L. Jackson), volgare e atteggiato lavoratore nel settore, e la cameriera Clementine (Gwyneth Paltrow), che arrotonda il suo stipendio prostituendosi. Se John si infatua di entrambi i soggetti, Sydney diffida del primo e cerca di aiutare in maniera disinteressata la seconda. Questo fino ad una telefonata notturna di John, che chiamerà il generoso Sydney per sbrogliare una situazione delicata…
“Sydney” è il primo lungometraggio di Paul Thomas Anderson, al tempo 25enne e ambizioso regista di bellissime speranze e figlio di un noto conduttore radiofonico; il ragazzo si è comunque fatto le ossa come assistente di produzione, vesti in cui ha avuto occasione di conoscere l’esperto attore Philip Baker Hall, per il quale ha scritto il corto (pressoché autofinanziato) “Cigarettes & Coffee” presentato al Sundance Festival 1993 e il ruolo del protagonista nel suo esordio.
Agli albori della sua straordinaria carriera, Anderson doveva ancora imparare a gestire molti aspetti legati al filmmaking, con l’interazione con i produttori in cima alla lista: la casa Rysher Entertainment – peraltro in crisi colossale e definitivamente fallita nel ‘99 – provò dapprima ad imporre un proprio cut di “Sydney”, accontentando infine Anderson e facendo uscire la versione voluta dal regista, ma imponendole il titolo “Hard Eight”. Il film passò quasi del tutto inosservato e Anderson si gettò immediatamente al lavoro su “Boogie Nights” per esplodere, ovviamente detenendo di lì in avanti i diritti sul final cut.
P. T. Anderson a 25 anni era già un regista di tutto rispetto e lo si può notare con facilità dal suo uso già disinvolto di campi e controcampi e della steadicam; nella scena tecnicamente più preziosa di “Sydney”, la macchina gira lentamente intorno al protagonista mentre fa il suo ingresso al casinò. Dapprima lo precede con una ripresa frontale, poi lo segue lateralmente per seguirlo fino ai tavoli del craps, gioco d’azzardo in cui Sydney punta sul risultato hard eight di cui sopra (trovando come antagonista un gambler sfacciato interpretato da Philip Seymour Hoffman). Una tecnica già brillante e matura, di cui il regista – grande ammiratore di Altman, Demme e Scorsese – farà sfoggio nel successivo “Boogie Nights” fin dalla scena d’apertura, caratterizzata da uno storico piano sequenza ancor più elaborato.
Resta comunque difficile definire “Sydney” un esordio folgorante, non fosse altro per il fatto che la sua fama è dovuta principalmente al recupero che ne è stato fatto una volta cementatasi la reputazione di Anderson. Ma non solo: presenta anche diversi difettucci; in estrema sintesi, è nel complesso un film piuttosto macchinoso, che fluisce parzialmente solo grazie al suo carismatico protagonista, purtroppo circondato da personaggi caratterizzati in maniera deficitaria: John C. Reilly, Samuel L. Jackson e una Gwyneth Paltrow assai poco convincente fanno del loro meglio, ma patiscono ruoli stereotipati, incoerenti, fiaccati da dialoghi raramente brillanti. I maggiori temi andersoniani (rapporto padre-figlio, ambizione, redenzione, ascesa e decadenza) sono presenti in nuce, ma non emergono con la loro consueta potenza. Il plot twist non basta a rendere “Sydney” un film al pari dello standard a cui Paul Thomas Anderson ci ha abituati negli anni a venire, fermandosi ad essere un più che valido punto di partenza per un autore quantomeno (già) straordinario per tecnica, scelte di fotografia e di musica.
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